La recente sentenza della Corte di Cassazione ha sollevato un dibattito cruciale in materia di confisca dei beni, rimettendo in discussione l’applicazione del regime preventivo nei confronti dell’imprenditore Antonio Ricci, figura centrale nel caso giudiziario noto come “Galassia”.
La decisione, che annulla con rinvio il provvedimento della Corte d’appello di Reggio Calabria, evidenzia una complessità interpretativa che tocca i fondamenti stessi della misura ablatoria, focalizzandosi sulla necessità di un nesso causale rigorosamente dimostrato tra attività illecite e l’incremento patrimoniale.
Il provvedimento confiscativo, originariamente disposto dal Tribunale di Reggio Calabria nel gennaio 2024, riguardava un vasto complesso di asset riconducibili a Ricci e alle società da lui controllate (Oia Services, titolare del marchio Betaland), includendo non solo le attività operative, ma anche trust costituiti a Malta e i relativi portafogli finanziari, conti correnti, polizze assicurative e disponibilità liquide.
Il caso si inserisce nell’ambito dell’inchiesta “Galassia”, che ha portato alla luce presunti collegamenti tra la criminalità organizzata calabrese, la ‘ndrangheta, e il settore del gioco d’azzardo online, un mercato sempre più complesso e permeabile a infiltrazioni illecite.
La Quinta Sezione della Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato Gaetano Sassanelli, ha ritenuto insufficiente la dimostrazione di quel legame indissolubile che deve sussistere tra il flusso di risorse provenienti da attività criminali e l’arricchimento del patrimonio dell’imprenditore.
Questa interpretazione si basa su principi fondamentali del diritto penale e del diritto amministrativo, che richiedono una rigorosa correlazione causale per giustificare una misura così drastica come la confisca, la quale incide direttamente sul diritto di proprietà.
Un elemento decisivo nella valutazione della Corte è rappresentato dai precedenti procedimenti penali che hanno coinvolto Ricci, alcuni dei quali si sono conclusi con assoluzioni.
La Suprema Corte ha sottolineato un difetto di chiarezza e di perimetrazione temporale tra la presunta pericolosità generica dell’imprenditore e l’acquisizione dei beni confiscati.
In altre parole, non è stato dimostrato in modo convincente che i beni siano stati acquisiti *in conseguenza* di comportamenti illeciti successivi.
I giudici della prevenzione, nel loro precedente ragionamento, avevano valorizzato la condanna di Ricci per associazione a delinquere nel procedimento “Galassia”, relativa a fatti commessi tra il 2012 e il 2018.
Tuttavia, la Cassazione ha precisato che, per i beni acquisiti in epoca precedente a tale procedimento, le argomentazioni difensive relative all’illegittima proiezione retrospettiva della pericolosità generica risultano condivisibili.
La sentenza della Cassazione non esclude a priori la possibilità di una confisca, ma ne ribadisce la necessità di un’analisi approfondita e dettagliata, che tenga conto della complessità delle dinamiche patrimoniali e dei rapporti causali.
Il procedimento è ora rinviato alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che dovrà riesaminare il caso alla luce di queste nuove considerazioni, con l’onere di fornire una motivazione più robusta e puntuale per giustificare la confisca dei beni di Antonio Ricci.
Il caso solleva interrogativi fondamentali sul delicato equilibrio tra lotta alla criminalità organizzata e tutela dei diritti fondamentali, richiamando l’attenzione sull’importanza di un’applicazione rigorosa e imparziale del diritto.