La Corte d’Assise di Reggio Calabria ha emesso una sentenza di ergastolo nei confronti di Anna Maria Panzera, un atto giudiziario che suggella un caso di profonda tragicità e solleva complesse riflessioni sulla responsabilità genitoriale, la vulnerabilità psichica e i confini dell’istinto materno.
La vicenda, che ha scosso l’opinione pubblica, ruota attorno al ritrovamento, il 26 maggio 2024, del corpo senza vita di un neonato abbandonato in uno zaino tra gli scogli di Villa San Giovanni, una località di passaggio cruciale per i collegamenti marittimi.
L’imputata, Anna Maria Panzera, figura centrale in questo dramma, è la madre della giovane tredicenne affetta da deficit psichico che ha portato avanti la gravidanza.
La sentenza, accolta dalla pubblica accusa rappresentata dai magistrati Tommaso Pozzati e Walter Ignazitto, si basa su un’indagine meticolosa condotta dalla Squadra Mobile e dai Carabinieri, e corroborata dalle prove raccolte durante il processo.
L’inchiesta ha ricostruito una sequenza di eventi agghiacciante: subito dopo il parto, Anna Maria Panzera avrebbe provveduto a deporre il neonato in uno zaino, abbandonandolo in una posizione di estrema precarietà, esposta agli elementi e priva di qualsiasi possibilità di sopravvivenza.
Le immagini delle telecamere di sorveglianza, cruciali nel quadro probatorio, hanno documentato inequivocabilmente l’azione di abbandono da parte della donna, confermando l’accusa di infanticidio.
Un elemento particolarmente delicato dell’indagine ha riguardato il ruolo della tredicenne, la figlia dell’imputata, coinvolta nella vicenda in quanto madre del neonato.
Le indagini hanno evidenziato come Anna Maria Panzera abbia assistito e apparentemente “aiutato” la figlia durante il parto, un aspetto che solleva interrogativi sulla dinamica relazionale tra madre e figlia e sulle responsabilità genitoriali in un contesto di fragilità psichica.
Il ritrovamento del neonato con il cordone ombelicale ancora attaccato, unitamente ad ulteriori elementi emersi durante le indagini, suggerisce che il bambino sia nato vivo per poi essere deceduto a causa di cause ancora in corso di accertamento, ma plausibilmente legate a soffocamento o asfissia.
La sentenza di ergastolo rappresenta una condanna severa, ma inevitabile alla luce della gravità dei fatti.
Oltre alla dimensione legale, il caso Panzera apre un dibattito di ampio respiro sulla protezione della maternità vulnerabile, sull’importanza di interventi precoci a sostegno di famiglie in difficoltà e sulla necessità di garantire un adeguato supporto psicologico per minori con disabilità, al fine di prevenire tragedie di questa portata.
Si tratta di un campanello d’allarme che invita a riflettere sui margini di intervento della società e delle istituzioni per tutelare la vita umana, anche quando nasce in condizioni di estrema fragilità.






