L’esperienza di un pubblico magistrato, spesso relegato a ruoli marginali nelle dinamiche associative, mi ha spinto, con un certo timore e un’incontenibile necessità di testimonianza, a presenziare all’assemblea dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Un gesto inedito, quasi un atto di contrizione, considerando le aspere battaglie combattute in passato con le istituzioni e i centri di potere di Catanzaro.
Battaglie feroci, che ci hanno visto contrapposti, ma che, nonostante le cicatrici, hanno rafforzato la nostra convinzione nella necessità di difendere l’indipendenza della magistratura e la sua funzione di garanzia costituzionale.
Ora, di fronte alla proposta di riforma, sento l’imperativo di dare voce alle inquietudini che serpeggiano tra i colleghi.
Non si tratta di una sterile opposizione ideologica, né di un’ostinata resistenza al cambiamento, ma di una profonda riflessione sulle conseguenze di una riforma che rischia di compromettere i principi fondamentali del nostro sistema giudiziario.
Le argomentazioni a favore del cambiamento appaiono spesso ingannevoli, velate da un linguaggio tecnico e apparentemente neutro.
Si parla di efficienza, di semplificazione, di necessità di adeguamento ai tempi moderni.
Ma dietro queste parole si cela un disegno più subdolo: la creazione di un apparato giudiziario svuotato di significato, un corpo di magistrati plasmati secondo modelli predefiniti, privi di iniziativa e di spirito critico.
Come osservato magistralmente dal procuratore Nicola Gratteri, si rischia di generare un “pubblico mistero burocrate”, una sorta di automatismo giudiziario privo di autonomia di giudizio.
Un sistema in cui i magistrati non sarebbero più depositari della legge, ma semplici esecutori di direttive imposte dall’alto.
Un corpo giudiziario “addomesticato”, “docile”, che si conformi alla negazione di un perfetto burocrate, rinunciando alla propria coscienza e al proprio ruolo di baluardo contro gli abusi di potere.
Il referendum si pone quindi come un momento cruciale per il futuro della giustizia italiana.
Non si tratta di scegliere tra “pro” e “contro” una riforma, ma di decidere quale modello di magistratura vogliamo per il futuro.
Un modello di magistrati indipendenti, coraggiosi, capaci di prendere decisioni difficili, anche a costo di inimicarsi i potenti? Oppure un modello di magistrati compiacenti, silenziati, pronti a piegarsi alle pressioni interne ed esterne?La scelta è chiara: è necessario un “no” convinto e consapevole, un atto di difesa della nostra identità professionale e del nostro ruolo di garanti della Costituzione.
Un “no” che non sia un rifiuto immotivato del cambiamento, ma una richiesta di una riforma più equilibrata, che tenga conto delle esigenze di efficienza e di modernizzazione, senza compromettere i valori fondamentali della nostra giustizia.
Un “no” che sia un monito, un campanello d’allarme per chi detiene il potere, affinché ascolti la voce dei magistrati, che sono i primi ad amare la giustizia e a volerne difendere l’integrità.





