La protesta di centinaia di ex LSU-LPU calabresi, concentrata a Roma dinanzi al Dipartimento della Funzione Pubblica e con una delegazione a Montecitorio e al Ministero del Lavoro, rappresenta l’apice di una vertiginosa spirale di precarietà e ingiustizia che affligge un tessuto sociale fragile come quello calabrese.
Il Disegno di Legge 539, presentato dal senatore Gasparri, si erge come un’ultima, disperata speranza per circa 4500 persone, che costituiscono una componente strutturale e imprescindibile del sistema di servizi essenziali erogati in ben 360 comuni della regione.
La loro presenza non è un dettaglio marginale, ma una condizione necessaria per il funzionamento di servizi fondamentali come l’assistenza domiciliare, la manutenzione del territorio, l’erogazione di servizi amministrativi e la gestione di infrastrutture vitali.
L’impatto della loro possibile uscita dal sistema sarebbe catastrofico, con la prospettiva di un collasso di servizi e un profondo aggravio per le amministrazioni locali.
La situazione è resa ancora più drammatica dai livelli salariali vergognosamente bassi.
Molti percepiscono stipendi inferiori ai mille euro mensili, con una significativa porzione costretta a lavorare part-time, con contratti che variano dalle 14 alle 26 ore settimanali e retribuzioni che si attestano spesso al di sotto dei 700 euro.
Questa condizione di estrema vulnerabilità economica è aggravata da una gestione contributiva disastrosa: per quindici anni, una parte significativa del loro lavoro è stata caratterizzata da una “legalizzazione” del lavoro nero, con la conseguente omissione di versamenti previdenziali che ha compromesso irreparabilmente il loro futuro pensionistico.
L’incontro con esponenti politici e funzionari governativi ha generato un timido segnale di speranza: l’impegno a monitorare l’iter del disegno di legge, quantificando l’impatto finanziario a lungo termine.
Tuttavia, la richiesta degli ex LSU-LPU va ben oltre un mero adeguamento contributivo: si tratta di rivendicare una pensione dignitosa dopo decenni di lavoro, un riconoscimento del valore sociale e professionale che hanno apportato al territorio.
La denuncia è chiara: essi si sentono i dipendenti pubblici più poveri e, di conseguenza, i futuri pensionati più sfortunati, nonostante l’efficienza e l’efficacia del servizio che hanno fornito, un servizio che contribuisce significativamente al miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
La loro battaglia non è solo una questione di giustizia individuale, ma una sfida cruciale per la coerenza del sistema di welfare e per la tutela dei diritti dei lavoratori precari, un monito per evitare che l’abbandono e la marginalizzazione continuino a segnare il futuro di un’intera regione.
La loro storia è una ferita aperta nel tessuto della società italiana, un campanello d’allarme che richiede un’azione urgente e risolutiva.






