L’eco di una notizia inattesa risuona in questi giorni, una data che si imprime nella mente: l’undici dicembre.
Un momento sospeso tra la celebrazione dell’Immacolata Concezione e l’imminenza del Natale, incrociato con un evento personale, il compleanno della figlia, eppure profondamente legato a un destino collettivo.
In questi giorni, la giustizia amministrativa, attraverso un intervento della sinistra, mi conduce a un nuovo stadio processuale, la Cassazione, in relazione al caso Open Arms.
Si prospettano due scenari, due possibili traiettorie per il futuro.
Il primo, quello auspicabile, vedrebbe la conferma dell’assoluzione, un atto di giustizia che riconoscerebbe l’innocenza e la legittimità delle azioni intraprese.
In questo caso, il ritorno a festeggiare, a Lamezia, assumerebbe un significato ancora più profondo, simbolo di una libertà riconquistata e di un impegno continuo verso la difesa dei valori che mi guidano.
L’alternativa è più gravosa.
La Corte potrebbe invalidare le 268 pagine di motivazioni che hanno portato all’assoluzione, aprendo la strada a un nuovo processo, con la concreta possibilità di una condanna fino a sei anni di reclusione.
Un peso significativo, ma che non intacca la consapevolezza della correttezza del mio operato.
Perché, al di là delle vicende giudiziarie, permane la ferma convinzione di aver agito nell’interesse superiore del Paese, nel rispetto dei suoi confini e della sua identità.
La difesa di questi principi non può essere considerata un reato, ma un dovere civico.
La mia presenza a Lamezia, qualunque sia l’esito del procedimento, non sarà un atto di sfida, ma un gesto di coerenza, un modo per testimoniare la mia appartenenza a una terra e a un popolo che meritano di essere protetti.
La giustizia, come la verità, può essere lunga e tortuosa, ma non può soffocare la voce di chi si batte per ciò in cui crede.
La mia determinazione a onorare il mio ruolo e a difendere i valori che mi ispirano rimane incrollabile.






