Dopo un’attesa carica di angoscia e incertezza, il ricongiungimento è finalmente avvenuto. Un respiro profondo, un abbraccio che racchiude mesi di separazione, una liberazione intrisa di fatica e una punta di dolore: così si è manifestato il ritorno di Salvatore Politi e della sua famiglia in Azerbaigian. A descriverlo, al telefono con l’ANSA, è lo stesso Politi, con la voce segnata dalla preoccupazione ma sollevata dalla ritrovata vicinanza dei suoi cari.La sua compagna, architetto iraniana di 36 anni, ha lasciato dietro di sé un intero mondo: la sua famiglia, le sue radici, la sua stessa esistenza a Teheran, dilaniata dai boati delle esplosioni che hanno squarciato la città. Il bambino, di soli diciotto mesi, si è addormentato tra le sue braccia, esausto come i genitori, testimone silenzioso di un trauma che negherà per anni.La decisione di fuggire non è stata immediata. L’anelito alla speranza, alimentato da tentativi di mediazione e da una fragile promessa di pace, aveva tenuto a bada la paura. Ma la realtà delle bombe, il loro rombo assordante che ha infranto l’illusione di sicurezza, ha reso la partenza non solo auspicabile, ma imprescindibile. “Non abbiamo mai pensato che sarebbe stato pericoloso andarsene”, confida Politi, riflettendo sulle motivazioni che hanno spinto la sua compagna a lasciare il suo paese. “C’erano colloqui… un barlume di speranza.”Ora, a Baku, il loro breve riposo è un preludio al viaggio di ritorno verso l’Italia, un nuovo inizio in un paese che non è il loro, ma che offre, almeno per il momento, una relativa tranquillità. Dietro di loro, però, resta un dolore profondo, un senso di perdita e la costante angoscia per i propri cari rimasti intrappolati in una situazione sempre più precaria. Il futuro rimane incerto, ma il ricongiungimento, seppur doloroso e faticoso, rappresenta un piccolo, prezioso spiraglio di luce in un orizzonte offuscato dalla guerra.