Alberto Stasi, figura centrale in una delle storie giudiziarie più complesse e mediaticamente intense degli ultimi anni, ha avviato una causa legale nei confronti della criminologa forense Anna Vagli.
La vicenda, risalente all’agosto 2007, quando Chiara Poggi fu trovata morta a Garlasco (Pavia), si riapre con l’atto di querela mosso dal condannato, attualmente detenuto con una pena di 16 anni per l’omicidio.
Il fulcro della disputa risiede in un articolo pubblicato online da Vagli nel maggio 2022.
Il testo, dal titolo provocatorio e categorico – “Perché Alberto Stasi è l’assassino di Chiara Poggi al di là di ogni ragionevole dubbio” – esponeva un’interpretazione del possibile movente che ha alimentato nuove speculazioni e, a detta della difesa di Stasi, ha leso la sua reputazione e la presunta riabilitazione.
L’ipotesi formulata da Vagli, in qualità di esperta nel campo della profilazione criminale e dell’analisi forense, si concentra sulla presunta esistenza di materiale pedopornografico rinvenuto da Poggi nel computer di Stasi.
Questa rivelazione, secondo la criminologa, avrebbe rappresentato l’elemento scatenante di una dinamica conflittuale culminata nella tragica morte.
La vicenda pone interrogativi significativi sulla libertà di espressione, i limiti dell’analisi forense divulgata al pubblico e il ruolo dei media nei processi giudiziari.
Mentre Vagli esercita il diritto di esprimere la propria opinione professionale, basata, a suo dire, su una valutazione approfondita delle evidenze, la difesa di Stasi contesta l’accuratezza e l’opportunità di tali affermazioni, sostenendo che contribuiscono a creare un’immagine distorta della realtà e a pregiudicare la possibilità di un reale percorso di reinserimento sociale per il condannato.
L’articolo di Vagli, con la sua affermazione perentoria e l’introduzione di un movente potenzialmente sensibile come la pornografia minorile, ha riacceso il dibattito pubblico sull’omicidio Poggi, riaprendo ferite ancora dolorose per la famiglia della vittima e per l’intera comunità.
Il caso solleva, inoltre, questioni cruciali sull’etica professionale dei criminologi forensi, in particolare quando le loro analisi vengono veicolate attraverso canali di comunicazione di massa, potenzialmente influenzando l’opinione pubblica e, forse, anche le successive fasi del processo legale.
La querela di Stasi si configura, in questo contesto, come un tentativo di difendere la propria immagine pubblica e di contrastare quelle che percepisce come accuse infondate e dannose.





