Cinquant’anni.
Un arco temporale che, in una narrazione lineare, dovrebbe suggerire distanza, mitigazione, forse persino oblio.
Eppure, il massacro del Circeo, perpetrato nel 1975, si presenta come un’eco angosciante, un trauma collettivo ancora pulsante, che irrompe nella nostra coscienza con una forza inattesa, illuminando con cruda chiarezza le ombre persistenti della violenza di genere.
Non si tratta semplicemente di un “caso” che sconvolse l’Italia, ma di un evento spartiacque che rivelò le dinamiche perversi di un potere maschile radicato, un potere esercitato con spietata disinvoltura in un contesto di privilegio sociale e impunità percepita.
Rosaria Lopez, Rosi, e Donatella Colasanti, Nilla, erano giovani, piene di sogni e di futuro.
Le loro vite, spezzate o gravemente compromesse, incarnano la fragilità dell’esistenza femminile di fronte a un’arroganza brutale.
L’orrore non si esaurisce nella descrizione delle violenze subite – un inferno di tortura, umiliazione e degradazione che portò alla morte di Rosaria e alla miracolosa salvezza di Donatella, la quale, con un atto di resilienza inaudita, si salvò fingendosi morta.
La vera gravità del massacro risiede nella sua capacità di svelare una mentalità tossica, un sistema di valori distorto che considerava le donne come oggetti a disposizione, come trofei da conquistare e possedere con la forza.
Il Circeo, località balneare icona del lusso romano, divenne il palcoscenico di una violenza che trascendeva la sua ambientazione geografica.
Simboleggiava un microcosmo di una società in cui la mascolinità era costruita sull’oppressione e la vulnerabilità femminile era un bersaglio.
L’immagine stessa della villa, un luogo di apparente bellezza e tranquillità, si trasformò in un simbolo di profondo squallore morale, un monito sulla capacità umana di perpetrare atti di inaudita crudeltà.
Il “filo rosso” che lega il massacro del Circeo ai femminicidi contemporanei non è solo una retorica giornalistica, ma una connessione strutturale, un’eredità culturale che si manifesta in forme diverse, ma con le stesse radici: la disuguaglianza di genere, la cultura dello stupro, la negazione dell’autonomia femminile, l’idea distorta che il possesso implichi il diritto di controllo e violenza.
Donatella Colasanti, testimone silenziosa dell’indicibile, è diventata una figura chiave nella lotta per i diritti delle donne, la cui testimonianza ha contribuito a smuovere coscienze e a promuovere una maggiore consapevolezza sulla violenza di genere.
La sua sopravvivenza non è solo un miracolo personale, ma un simbolo di speranza e di resistenza.
Ricordare il massacro del Circeo non è un atto di mera commemorazione, ma un impegno attivo per costruire una società più giusta ed equa, in cui la violenza contro le donne sia sconfitto e l’autodeterminazione femminile sia non solo riconosciuta, ma attivamente protetta.
È un monito costante a non dimenticare, a non abbassare la guardia, a continuare a lottare per un futuro in cui nessuna donna debba più subire un destino simile.