L’ascesa vertiginosa della Curva Sud milanista, un fenomeno che trascendeva la semplice passione calcistica, si alimentava di una dinamica preoccupante.
Lungi dall’essere un mero aggregato di tifosi, si configurava come un’entità capace di generare un impatto economico significativo, stimato in guadagni che superavano i cento mila euro annuali.
Questa prosperità era frutto di una gestione opaca, caratterizzata da azioni intimidatorie e violenza che venivano utilizzate per consolidare il controllo e scoraggiare qualsiasi forma di contestazione.
La Curva Sud, di fatto, si ergeva come un motore di ricchezza costruito sull’intimidazione e sulla sopraffazione, un sistema che sembrava inattaccabile e impermeabile a qualsiasi intervento esterno.
Parallelamente, la curva Nord interista, seppur apparentemente distinta, si rivelava un’entità altrettanto problematica, ma con radici ancora più profonde nel tessuto criminale.
La sua funzione non era primariamente quella di generare profitti diretti, quanto piuttosto di costituire un contesto favorevole e una copertura per attività illegali ben più consistenti.
La Nord, in questo scenario, diventava una sorta di “porto sicuro” per affari loschi, un ambiente in cui operare al riparo da controlli e sanzioni.
Il collegamento più allarmante riguardava l’esistenza di un rapporto di protezione, un vero e proprio patto di non belligeranza, orchestrato e garantito dalla potente famiglia mafiosa dei Bellocco, una costola importante della ‘ndrangheta calabrese.
Questo legame non era un’ipotesi marginale, ma un elemento strutturale che conferiva alla curva Nord una forma di invulnerabilità.
L’appoggio del clan Bellocco non si limitava a una mera tolleranza, ma si traduceva in un sostegno attivo, che assicurava protezione, risorse e, soprattutto, impunità.
La presenza della ‘ndrangheta, un’organizzazione criminale ramificata e potente, permeava il tessuto sociale e politico, estendendo la sua influenza anche nel mondo del calcio.
L’alleanza tra la curva Nord e i Bellocco rappresentava una pericolosa commistione tra sport, criminalità organizzata e potere economico, un vortice di illegalità che minacciava la sicurezza e l’integrità del sistema calcio italiano.
Le indagini, nel corso degli anni, hanno rivelato come questa sinergia avesse permesso ai membri della ‘ndrangheta di infiltrarsi in ogni aspetto della vita della curva, dall’organizzazione degli eventi alla gestione delle attività commerciali legate alla squadra.
La curva diventava così un laboratorio di reclutamento, un luogo dove i giovani venivano avvicinati all’ambiente criminale e indottrinati con i valori dell’omertà e della sopraffazione.
La gravità della situazione risiedeva non solo nella presenza di un’organizzazione mafiosa, ma anche nella capacità di questa di sfruttare la passione popolare per il calcio come strumento di potere e di arricchimento.
L’immagine pulita e l’identità popolare del calcio venivano così strumentalizzate per mascherare attività illegali e consolidare un impero criminale.
La lotta contro questo fenomeno richiedeva un impegno congiunto da parte delle forze dell’ordine, della magistratura, delle istituzioni sportive e della società civile.
Era necessario un intervento radicale per smantellare le reti criminali, ripristinare la legalità e restituire al calcio la sua autentica identità sportiva, libera da ogni forma di influenza mafiosa.
La riqualificazione delle curve, la promozione di una cultura sportiva basata sul rispetto e sulla sana competizione, e l’educazione alla legalità nei confronti dei giovani tifosi erano elementi fondamentali per arginare questo fenomeno e prevenire nuove contaminazioni.





