Ventidue anni. Un arco temporale che dovrebbe, in teoria, lenire le ferite, permettere una ricostruzione, una parvenza di serenità. Invece, per la famiglia Costa, il tempo si è rivelato una spirale di dolore che riemerge, amplificato da una decisione giudiziaria che ne riapre le piaghe. La loro vicenda, incisa nella memoria collettiva, è quella di Emanuele, un bambino di dodici anni strappato alla vita nel 2003, in un luogo paradossale: il Lago di Santa Croce, gioiello naturalistico incastonato nel cuore delle Dolomiti bellunesi.Non si trattò di un semplice annegamento. Emanuele morì in un ambiente alterato, in una trappola insidiosa creata da un improvviso abbassamento del livello dell’acqua, lasciando scoperta una pozza di fango e detriti dove, in condizioni normali, si estendeva la superficie lacustre. Un evento inatteso, una variante improvvisa in un paesaggio apparente sicuro.La vicenda non si è conclusa con il lutto. Il dolore per la perdita di un figlio si è intrecciato con un lungo e complesso iter giudiziario, un processo di accertamento delle responsabilità che ha visto i genitori di Emanuele coinvolti in una disputa legale che si è protratta per anni. Ora, una sentenza della Cassazione, con un ribaltamento di prospettive, ripropone interrogativi scomodi, riaccende la fiamma del dolore e, in un atto che molti definirebbero beffardo, ridefinisce le dinamiche di colpa.La sentenza solleva questioni cruciali: qual è la natura della responsabilità in eventi inattesi, quando la forza della natura si manifesta in modi imprevedibili? Come si concilia il diritto alla sicurezza con la difficoltà di anticipare rischi ambientali? E, soprattutto, come proteggere le famiglie dal peso emotivo e finanziario di processi legali che, pur cercando giustizia, spesso si rivelano un ulteriore tormento?La storia di Emanuele Costa non è solo una tragedia personale; è un monito sulla necessità di una maggiore attenzione alla sicurezza dei luoghi pubblici, sulla fragilità dei sistemi di previsione e, soprattutto, sulla profonda compassione che dovrebbe accompagnare qualsiasi processo giudiziario che coinvolge famiglie distrutte dal dolore. La vicenda si erge come un’eco di smarrimento, un grido silenzioso che implora una maggiore umanità nella ricerca della verità, ricordandoci che dietro ogni sentenza c’è una storia di vite spezzate e di dolore inconsolabile.