Il video di sorveglianza è una cronaca agghiacciante, un frammento di brutalità che emerge dall’ombra, illuminando con cruda chiarezza le dinamiche distorte di una violenza estrema.
Non vi è spazio per l’attenuante del pentimento; solo l’esibizione di una rabbia sconsiderata, l’aberrante tentativo di scaricare la responsabilità su chi non ha colpa, sulla vittima stessa, Luciana Ronchi, strappata alla vita con quattordici coltellate dopo un’implacabile persecuzione.
L’omicidio, consumatosi mercoledì a Milano, non è un evento isolato, ma un tragico tassello in un mosaico di femminicidi che insanguina il nostro Paese.
Il video, pur nella sua brevità, rivela le ultime, strazianti fasi dell’aggressione: un inseguimento spietato, la presa, e poi, l’implacabile insistenza della violenza, culminante nella caduta di Luciana a terra.
Un gesto disperato, un tentativo di fuga che si rivela vano, preludio alla morte che l’attende all’ospedale Niguarda.
Ma questo non è solo un resoconto di un crimine.
È la fotografia di un fallimento culturale, di una società incapace di riconoscere e contrastare i segnali di allarme che precedono la violenza di genere.
Dietro questo femminicidio si celano dinamiche di controllo, di possesso, di maschilismo tossico che permeano le relazioni e che, troppo spesso, vengono giustificate o minimizzate.
La “colpevolizzazione della vittima” è una strategia comune in questi casi: un tentativo vergognoso di distorcere la realtà, di negare la responsabilità dell’aggressore e di attribuire alla donna un ruolo attivo nella propria disgrazia.
Un meccanismo di difesa per chi non vuole ammettere la propria barbarie, per chi si nasconde dietro frasi fatte e alibi inconsistenti.
È imperativo spezzare questo ciclo di violenza, attraverso un’educazione che promuova il rispetto, l’uguaglianza e l’empatia.
È necessario investire in risorse dedicate alla prevenzione e alla protezione delle donne, offrendo sostegno psicologico e legale a chi si trova in situazioni di pericolo.
La memoria di Luciana Ronchi non può essere offuscata dal silenzio o dalla complicità.
La sua storia deve servire da monito, da stimolo per un cambiamento radicale nella nostra società, affinché nessuna altra donna debba subire un destino simile.
Dobbiamo trasformare l’indignazione in azione, la rabbia in impegno concreto, per costruire un futuro libero dalla violenza di genere.







