La sua esistenza si era ridotta a un’agonia silenziosa, una prigione dorata costruita con le rate di un mutuo.
Sadjide, chiamata affettuosamente “Sagi”, una sarta di origini macedoni, aveva trovato nella sua casa di Pianello Vallesina, frazione di Monte Roberto (Ancona), non un rifugio, ma il teatro ultimo di una violenza inesorabile.
A quarantanove anni, la sua vita si è spenta il 3 dicembre, brutalmente interrotta dalle mani del marito, Nazif Muslija, cinquantenne, già noto alle autorità per pregresse accuse di maltrattamenti.
La decisione di rimanere in quell’abitazione, condivisa con un uomo che l’aveva ripetutamente umiliata e terrorizzata, non era frutto di sottomissione, ma di una complessa rete di costrizioni materiali ed emotive.
Era una donna tutt’altro che passiva, capace di affermare la propria individualità nel suo lavoro di sarta, un’arte che le permetteva di plasmare tessuti e creare bellezza, in contrasto con la desolazione che la circondava.
Tuttavia, l’intrappolamento economico, la dipendenza finanziaria legata al mutuo, rappresentava una barriera invalicabile, un vincolo che la teneva ancorata a un destino inaccettabile.
La sua notte era scandita dalla paura, una guardia costante che la relegava nella camera da letto, un baluardo fragile contro l’uomo che le aveva promesso amore e che invece le aveva riservato abusi e terrore.
La casa, un simbolo di stabilità e sicurezza, si era trasformata in un luogo di angoscia, un labirinto di ombre e silenzi.
Il tubo metallico, l’arma che ha suggellato la sua fine, è solo il sigillo di un percorso di violenza pluriennale, un crescendo di soprusi che aveva eroso la sua dignità e soffocato la sua speranza.
Questo tragico evento non è un caso isolato, ma un riflesso di una realtà dolorosa: la violenza domestica, spesso nascosta dietro facciate di normalità, continua a mietere vittime.
La storia di Sadjide, o “Sagi”, ci interroga sulla nostra capacità di riconoscere i segnali di pericolo, di offrire supporto a chi si trova in situazioni di vulnerabilità e di costruire una società più giusta e sicura, dove nessuna donna debba più vivere nella paura e nella disperazione.
Il suo silenzio, ora, deve trasformarsi in un grido di allarme, un invito a rompere il ciclo della violenza e a garantire a ogni donna il diritto di vivere una vita libera, dignitosa e, soprattutto, sicura.





