Il cinismo di Pupi Avati, espresso con una metafora scioccante, incarna un sentimento di profonda frustrazione che serpeggia nel panorama cinematografico italiano. La sua osservazione, ripresa e amplificata dalle parole di Sergio Castellitto durante il Filming Italy Sardegna Festival, non è una semplice critica, ma una denuncia amara: un evento tragico, un atto di violenza estrema, sarebbe l’unico modo per forzare l’attenzione dei mass media e, di conseguenza, dei decisori politici, su una crisi strutturale che mina le fondamenta della settima arte in Italia.La parabola di Francis Kaufmann, figura di riferimento per Castellitto e Avati, diventa così il catalizzatore di un dibattito più ampio e doloroso. Non si tratta di un caso isolato, ma di un sintomo di una malattia cronica: la progressiva e insidiosa politicizzazione del cinema. Un processo pervasivo che ha trasformato un’istituzione culturale, un motore di creatività e un veicolo di espressione artistica, in un mero strumento di propaganda e consenso.L’epoca d’oro del cinema italiano, quella che ha lasciato un’eredità indelebile nel panorama mondiale, è stata soffocata dall’intervento politico, dalla burocrazia soffocante e dalla mancanza di visione strategica. La libertà creativa è stata compromessa, la meritocrazia sostituita da favoritismi e la qualità artistica sacrificata sull’altare di logiche di potere.Il commento di Avati, pur nella sua crudezza, è un grido d’allarme che invita a una riflessione urgente. È necessario ripensare il ruolo del cinema italiano, liberandolo dalle influenze politiche e restituendogli la sua autonomia e la sua dignità. Serve un cambio di paradigma che promuova la diversità delle voci, la sperimentazione e l’innovazione.Castellitto, condividendo la stessa preoccupazione, sottolinea l’importanza di un approccio più attento e consapevole alla gestione delle risorse e alla promozione del talento. Si tratta di un investimento nel futuro del paese, un investimento nella sua identità culturale e nella sua capacità di raccontare il mondo.La denuncia di Avati e Castellitto non è un atto di accusa indiscriminato, ma un appello alla responsabilità, un invito a riscoprire il valore del cinema come strumento di conoscenza, di crescita e di cambiamento. È un monito a non permettere che la settima arte diventi vittima di interessi politici e di logiche di potere, ma a restituirle il suo ruolo di protagonista nella vita culturale e sociale del paese. La metafora del mostro, per quanto sconcertante, vuole essere un campanello d’allarme, un segnale inequivocabile che il cinema italiano è in pericolo e che è necessario agire con urgenza per salvarlo.