L’emersione del tema del suicidio nel racconto autobiografico di Fedez, in particolare attraverso il capitolo intitolato “Del suicidio”, si presenta come un atto di cruda onestà, un tentativo di svelare la complessità di un’esperienza interiore spesso relegata all’ombra.
Più che descrivere l’atto stesso, il racconto si focalizza sul periodo di gestazione che lo precede, un percorso insidioso e progressivo fatto di elaborazione, sofferenza e disconnessione dalla realtà.
L’artista utilizza una metafora potente: quella del feto che si sviluppa nel buio della mente, alimentato da un costante monologo interiore che nega e svaluta la vita stessa.
Questa immagine suggerisce una graduale perdita di controllo, un processo in cui la volontà individuale si erge impotente di fronte a una forza interna sempre più pressante.
Il distacco improvviso dai farmaci, vissuto come un gesto impulsivo e liberatorio, si rivela paradossalmente un catalizzatore di sofferenza.
La dipendenza farmacologica, lungi dall’essere una semplice assunzione di pillole, si era incisa profondamente nel tessuto psichico, divenendo parte integrante dell’identità, del linguaggio e del pensiero.
L’interruzione brusca scatena quindi una reazione a catena, un “urlo” cerebrale che amplifica l’angoscia preesistente e destabilizza ulteriormente il fragile equilibrio.
La similitudine con la disintossicazione dall’eroina è illuminante: descrive un percorso fatto di astinenza fisica e psichica, caratterizzato da dolore, confusione e distorsione della percezione.
Il confine tra sogno e realtà si dissolve, lasciando spazio a un limbo infernale in cui la persona si sente intrappolata.
L’esperienza del Festival di Sanremo, che avrebbe dovuto rappresentare un trionfo artistico, si trasforma in un ulteriore elemento di sofferenza, un palcoscenico su cui esibire un dolore interiore che si rifiuta di essere gestito.
Il racconto si estende oltre il palcoscenico, abbracciando le dimore, gli ospedali, i luoghi di conflitto e i rifugi in cui l’artista ha cercato, invano, una via d’uscita.
Il racconto culmina in una profonda riflessione sul dolore altrui, sulle “facce” di chi, con esaurimento e disperazione, ha implorato una tregua.
La loro sofferenza diventa specchio di un dolore più grande, un monito sulla fragilità dell’esistenza e sulla necessità di una maggiore consapevolezza dei disturbi mentali.
Il testo non si pone come semplice confessione, ma come un invito all’empatia, alla comprensione e alla ricerca di aiuto, un faro nel buio per chi si sente smarrito e solo.
Il coraggio di raccontare la propria vulnerabilità diventa così un atto di speranza, un seme piantato nel terreno fertile della condivisione e della possibile guarigione.