Quarant’anni. Un quarto di secolo e dieci inverni trascorsi da quando, per la prima volta, la voce roca e potente di Bruce Springsteen risuonò tra le gradinate di San Siro. E ancora, una marea umana di oltre cinquantottomila anime lo accoglie con un’ovazione che supera l’entusiasmo per un gol decisivo, mentre sale sul palco affiancato da Little Steven, tornato a suonare dopo un intervento. Questa non è una mera esibizione musicale; è un atto politico, un grido di allarme, un monito contro le derive autoritarie.”Ciao, San Siro! Siete pronti?” La domanda è un fremito che precede l’esplosione di “No Surrender”, un inno alla perseveranza che sembra risuonare con un’urgenza nuova, amplificata dal contesto attuale. Springsteen non si limita a rivisitare i classici di *Born in the U.S.A.*, disco nato nel 1984, prima del suo debutto milanese. Il suo sguardo è rivolto al presente, alle crepe che minacciano le fondamenta della democrazia.”Stasera vi chiediamo di difendere la democrazia, di far sentire la vostra voce contro chi la soffoca, di invocare la libertà,” proclama, mentre le sue parole, tradotte sui maxi schermi, si fondono con la musica. Il tour, intitolato “The Land of Hopes and Dreams,” si rivela essere una piattaforma per denunciare l’abuso del potere, l’erosione dei diritti e la manipolazione della verità. “L’arte, la musica, il rock and roll, hanno un ruolo cruciale in tempi come questi,” afferma prima di interpretare la title track, un inno alla speranza che sembra fragile ma resiliente.Con un’apertura provocatoria, Springsteen anticipa la sua presa di posizione: “Quando un paese è fertile terreno per un demagogo, allora è mio dovere intervenire.” Segue una sequenza di brani che scavano nelle ferite dell’America: “Rainmaker,” “Atlantic City,” “Promised Land,” quest’ultima accompagnata da un’improvvisazione armonica che scalda il cuore del pubblico.L’interazione con la folla è palpabile. Springsteen scende sul palco durante “Promised Land”, invitando il pubblico a cantare con lui. “Hungry Heart” esplode dal basso, un coro spontaneo che sottolinea il legame profondo tra l’artista e i suoi fan. La ballata struggente di “The River” esprime una malinconia condivisa, mentre la sua voce, potente ma fragile, si leva in un finale intenso, quasi sussurrato.L’armonica assume un ruolo centrale, passando dalla vibrante energia di “Youngstown” alla malinconia disarmonica che ne consegue. La città, come recita la canzone, appartiene ai giovani, ma San Siro, in quella notte, è il regno di Springsteen.Un momento di raccoglimento segue con “Long Walk Home,” una preghiera sussurrata per la sua nazione. Poi, con cruda onestà, Springsteen esprime la sua preoccupazione: “Ciò che ci separa dalla tirannia è una questione di scelte, le scelte che facciamo noi.” Accompagnato solo dalla chitarra e dall’armonica, esegue “House of a Thousand Guitars,” un’allegoria del potere corrotto che deruba il popolo.”My City of Ruins” è preceduta da un’ulteriore denuncia, un grido di dolore per le ferite aperte dell’America. “Ho sempre cercato di essere un buon ambasciatore per l’America,” confessa, “ma ciò che sta accadendo ora sta alterando la natura stessa della democrazia.” Denuncia la persecuzione per dissenso, i tagli ai fondi universitari, lo sfruttamento dei più deboli e le alleanze con regimi oppressivi. Critica l’inerzia dei rappresentanti eletti, incapaci di proteggere i cittadini dall’abuso di potere. Ma nonostante tutto, mantiene viva la speranza, citando le parole del grande James Baldwin: “In questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe esistesse, ma ce n’è abbastanza.””Because the Night” e “Wrecking Ball” infiammano il pubblico, preparando il terreno per un finale di emozioni contrastanti. “Badlands” e “Thunder Road” segnano la conclusione del concerto “ufficiale,” ma tutti sanno che Bruce è un maestro nell’arte dei bis.L’energia si fa frenetica: “Born in the U.S.A.” illumina lo stadio, trasformandolo in un oceano di voci che cantano all’unisono. Seguono “Born to Run,” “Bobby Jean,” “Dancing in the Dark,” “10th Avenue Freeze-Out,” l’inconfondibile “Twist and Shout,” e culminano con “Chimneys of Freedom,” un inno alla libertà che risuona potente e vibrante.Quarant’anni di concerti e la passione, l’impegno, l’urgenza non diminuiscono. Sono un patrimonio culturale, una testimonianza di una voce che continua a risvegliare coscienze e a incitare all’azione.