Il sipario si alza su Los Angeles, ma lo sguardo di Amanda Knox è rivolto a Perugia, a un’ombra lunga e persistente.
In un piccolo cinema, dopo la proiezione dell’ultimo episodio della serie Hulu, ispirata al suo memoir “The Twisted Tale of Amanda Knox” (disponibile su Disney+ Italia), la figura della giovane donna, sopravvissuta a un incubo giudiziario, si fa strada tra le luci e le ombre.
La sua presenza, densa di un dolore ancora vivo, è un monito silenzioso, un eco di una vicenda che ha scosso l’Italia e il mondo.
La serie, e il suo libro, sono un’indagine stratificata sull’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa britannica trovata senza vita nel 2007, e sul processo mediatico che ha travolto Amanda Knox, ingiustamente accusata e poi assolta in via definitiva.
L’ottavo episodio, un capitolo cruciale, documenta il suo ritorno, a distanza di sette anni dall’assoluzione, nelle terre umbre, un viaggio intrapreso per confrontarsi con il passato e, forse, per cercare una forma di riconciliazione.
Nascosta nel retro di un’auto, come a voler sfuggire alla pressione di un ricordo doloroso, Amanda Knox si è confrontata con Giuliano Mignini, il pm che la perseguì con accusa di omicidio.
Un incontro delicato, un tentativo di dialogo in cui il magistrato, pur ribadendo di aver agito secondo coscienza, sembra ammettere la complessità della vicenda, stringendole la mano in un gesto che tradisce un’inattesa apertura.
Da quel momento, si è instaurato un legame inusuale tra accusa e accusata, un rapporto che si protrae ancora oggi, testimoniato da un semplice messaggio: “Mi è piaciuto il terzo episodio su di me.
“Il ritorno a Perugia ha implicato anche un pellegrinaggio sul luogo che un tempo fu la sua casa, un tentativo di elaborare un lutto represso, soffocato dall’urgenza di sopravvivere al processo mediatico.
La sequenza finale, evocativa, proietta l’immagine di Meredith, vivida e spensierata, un fantasma del passato che continua a tormentare Amanda.
Al suo fianco, Monica Lewinsky, produttrice della serie, condivide un’esperienza simile: la distorsione della verità e l’esigenza di far sentire la propria voce.
“Ho rivisto in lei la mia pena,” confessa Lewinsky, riconoscendo il peso di un’ingiustizia pubblica.
Amanda Knox, visibilmente commossa, ammette di sentirsi ancora spettro di se stessa, intrappolata in un loop temporale.
“Sono ancora sotto shock quando realizzo che sono qui e non a Perugia, in quei giorni.
È ancora tutto dentro di me in modo così viscerale,” dichiara, con la voce incrinata dall’emozione.
La sua battaglia, più che una difesa personale, si configura come un monito universale: un’accusa contro la fragilità della verità e la potenza distruttiva della semplificazione giudiziaria.
“Per troppo tempo il mondo intero mi ha detto che non ero importante, che la verità non contava nulla, che sarei dovuta stare zitta e sparire.
Non l’ho ascoltato perché questa è una storia più grande di me, non riguarda solo me, ma tutte le persone ingiustamente incarcerate, che si trovano in una tempesta perfetta, con il potere contro.
“La sua testimonianza è un appello alla giustizia, un atto di coraggio che sfida l’oblio e che invita a riflettere sulla responsabilità collettiva di fronte a un’ingiustizia.
Il suo silenzio sarebbe stato una vittoria per chi manipola la verità, una sconfitta per chi crede nel diritto alla giustizia.