L’Amleto che emerge dal palcoscenico del Teatro Carignano, in occasione del settantesimo anniversario dello Stabile torinese, si presenta come un’esperienza teatrale provocatoria, un atto di coraggio artistico che sfida le convenzioni.
Leonardo Lidi, affiancato dal drammaturgo Diego Pleuteri, non intende offrire una mera riproposizione del capolavoro shakespeariano, né una sua superficiale modernizzazione.
Al contrario, il progetto si configura come un’audace rilettura, un’esplorazione del testo originale che ne conserva l’essenza tematica, ma la sottopone a una profonda metamorfosi linguistica e scenica.
L’opera si articola attorno ai temi cardine dell’opera originale – la vendetta come motore di un’azione tormentata, l’annichilimento del dubbio che paralizza la volontà, l’ambiguità tra sanità mentale e simulazione della follia, il teatro stesso come metafora della realtà e specchio deformante della verità – ma li rielabora attraverso un linguaggio depurato, diretto, a tratti cinicamente umoristico.
Alcuni dei monologhi più iconici, pietre miliari dell’immaginario collettivo, scompaiono, lasciando spazio a un dialogo più serrato, a una drammaturgia più pulsante.
La rappresentazione si distingue per una peculiare giustapposizione di registri: la leggerezza del circo si fonde con la gravità del dramma, il gioco con il dolore, la farsa con la tragedia.
I personaggi, quasi marionette di un macchinario infernale, si muovono con l’agilità e la disarmante immediatezza di clown, portatori di un sorriso amaro che cela la profonda desolazione interiore.
L’illusione è un velo sottile che cela la cruda realtà, un abito di festa che non può occultare il tanfo della morte.
Al cuore dello spettacolo risiede la sacralità della parola teatrale, intesa come strumento di analisi sociale, come atto politico.
Il monito di Amleto, “Trattate bene gli attori, perché sono l’essenza di un’epoca,” si trasforma in un invito al dialogo, in una sollecitazione a riflettere sul ruolo dell’arte come veicolo di coscienza.
La celebre frase “Il teatro è la trappola per catturare la coscienza del re” assume una nuova risonanza: il palcoscenico non è più un semplice luogo di spettacolo, ma un laboratorio di verità, un luogo dove le ombre si proiettano sulla realtà.
Mario Pirrello incarna un Amleto lontano dagli stereotipi giovanili, un uomo maturo, segnato dalle disillusioni, capace di un’analisi lucida e spietata della propria condizione e di quella del mondo circostante.
La sua interpretazione è caratterizzata da un’evidente ambivalenza: un uomo che si nasconde dietro una maschera di follia apparente, un buffone che cela un animo tormentato.
L’uso di una parrucca e un trucco marcati, unitamente all’apparizione su un trampolino che si protende verso il pubblico, crea un contatto diretto, coinvolgendo lo spettatore in un rapporto di complicità.
L’invito a due spettatori a salire sul palco non è un semplice gesto scenico, ma un’affermazione del teatro come esperienza collettiva, un gioco partecipativo dove la passività è inaccettabile.
Leonardo Lidi non teme la reazione del pubblico: “Il mio, non lo nascondo, sarà uno spettacolo divisivo.
Ma è giusto che lo sia.
Amleto non può essere una carezza.
” Questa dichiarazione, emblema di un approccio teatrale coraggioso e anticonformista, chiarisce l’intento degli autori: offrire non un conforto consolatorio, ma uno specchio impietoso, una sfida intellettuale, un’esperienza capace di scuotere le coscienze.