L’avventura creativa, per me, germoglia sempre da un disegno.
Un’immagine, un’abbozzo, un’idea catturata su carta: è il seme da cui può nascere un’animazione, un personaggio in carne e ossa, una scultura tridimensionale o una complessa opera lenticolare.
Questo nucleo visivo, questa impronta grafica, permea ogni mio lavoro, in particolare nel cinema.
Tim Burton, maestro indiscusso di un immaginario unico, testimonia questo processo durante la presentazione della sua mostra “Light and Darkness” a Firenze, in occasione del prestigioso premio Lorenzo il Magnifico.
Benché celebre per aver rivoluzionato il cinema d’animazione con la tecnica dello stop motion, un linguaggio che ha portato a vette inesplorate a partire da “Pee-wee’s Big Adventure”, Burton sottolinea con passione l’importanza fondamentale dei suoi taccuini e delle illustrazioni.
Questi non sono semplici appunti, ma veri e propri laboratori di idee, scrigni di ispirazioni che lo accompagnano sin dall’infanzia, quando il disegno si rivelò un balsamo, un modo per esprimere un’interiorità che faticava a trovare parole.
“Quando ero giovane, il disegno era la mia voce,” confessa, “un rifugio per chi, come me, non si sente un grande comunicatore.
”Questi appunti non sono solo un esercizio tecnico, ma un viaggio profondo nell’animo umano.
“Ognuno di noi possiede un lato oscuro,” spiega, “e il disegno mi permetteva di portarlo alla luce.
Sono grato per questo, penso che tutti abbiamo bisogno di esplorare e liberare ciò che custodiamo dentro.
“Burton, con il suo stile inconfondibile e un tocco di ironia, rivela un elemento quasi mistico nel suo processo creativo.
I suoi sketchbook diventano portali verso mondi fantastici, dando vita a personaggi iconici come Edward Scissorhands, Beetlejuice o Emily, la sposa cadavere.
“Fin da bambino, ho sempre considerato il disegno come un’esperienza spirituale, un modo per connettermi con me stesso, una forma di comunicazione che trascende le parole,” afferma.
In un’epoca dominata dalla tecnologia e dall’iperconnessione, questa ricerca di un linguaggio visivo autentico assume un’importanza cruciale.
La mostra fiorentina, curata con la partecipazione attiva dello stesso Burton, offre uno sguardo inedito sui materiali d’archivio del regista, un percorso che si snoda tra bozzetti famosi e disegni meno noti, recuperati anche in luoghi inaspettati, come il garage della madre.
Tra questi, emergono figure come Oyster Boy e Robot Boy, personaggi apparentemente bizzarri, ma carichi di significato, elementi essenziali nella costruzione dell’immaginario gotico-romantico che contraddistingue l’opera di Burton. “Ogni mio personaggio ha una storia, delle emozioni.
Possono sembrare fantastici, ma per me sono profondamente reali,” sottolinea.
In un mondo spesso avvolto dalle tenebre, Burton lancia un messaggio di speranza.
“La luce si trova nella speranza.
Dobbiamo sempre credere che ci sia una luce, anche nei momenti più bui.
I miei film possono sembrare oscuri, ma io cerco sempre un equilibrio tra luce e ombra.
” Un bilanciamento sottile, ma essenziale, per illuminare il percorso dell’immaginazione e per ricordare che, anche nel cuore della notte, un raggio di speranza può sempre trovare una via d’uscita.