Il canto di Carmen Consoli, un’eco potente che si propaga dai palcoscenici internazionali alle vie della sua terra, Sicilia.
Quando la voce si smorza in italiano, assumendo le sfumature di brani come “Amore di plastica”, risuona una malinconia controllata, un’apparente quiete che si infrange, invece, nella vibrante autenticità del siciliano.
È lì, in quella lingua ancestrale, che Consoli libera la sua indignazione, un grido che si fa urlare, un monito che scuote le coscienze.
Il nuovo disco, “Amuri luci”, non è un mero progetto artistico, ma l’apice di un percorso, il primo tassello di una trilogia ambiziosa che esplora il mondo attraverso tre lingue diverse, ognuna portatrice di una prospettiva unica.
Il siciliano, lingua madre e veicolo privilegiato del suo impegno sociale e politico, diventa così strumento di denuncia, un catalizzatore di emozioni represse.
L’artista, testimone e partecipe delle cronache di un’epoca segnata da conflitti e disuguaglianze, si fa portavoce di un disagio diffuso.
La partecipazione attiva alle manifestazioni per Gaza, l’impegno del figlio di dodici anni, la promessa di una rotta in barca verso le acque contese: azioni concrete che traducono un sentimento di urgenza e responsabilità.
L’interrogativo angosciante sulla possibile strumentalizzazione della sua iniziativa – l’accusa di essere finanziata da Hamas, come lo potrebbero essere le sue azioni – rivela la complessità di un impegno che si confronta con la diffidenza e la propaganda.
Consoli non si limita a denunciare le azioni del potere politico, ma esprime solidarietà verso le voci silenziate, quelle degli israeliani che si oppongono alla guerra e che vengono ingiustamente associati a ideologie estremiste.
La sua compassione si estende alla condizione del popolo palestinese, vittima di un conflitto che alimenta odio e intolleranza.
“Parru cu tia”, l’inno alla ribellione scritto da Ignazio Buttitta e interpretato con Jovanotti, è un manifesto di consapevolezza: le parole, per essere significative, devono trasformarsi in azione, bisogna smettere di nascondersi dietro le proprie convenienze e prendere posizione.
“La terra di Hamdis”, un brano intenso che affonda le radici nella poesia siculo-araba di Ibn Hamdis, è una denuncia del primato del denaro, un’accusa rivolta a coloro che, armati di potere economico, perpetrano ingiustizie e sofferenze.
Il disco, un mosaico di memoria e coscienza civile, non è solo un’opera di denuncia, ma anche un viaggio nella storia e nella cultura siciliana, un intreccio di latino, greco e arabo che risuona con le voci del passato.
L’omaggio a Giovanni Impastato, figura simbolo della lotta alla mafia e continuatore dell’eredità del fratello Peppino, incarna l’impegno civile e la speranza in un futuro di giustizia e libertà.
La scelta di pubblicare un album in dialetto, consapevole delle difficoltà di accesso ai mezzi di comunicazione tradizionali, sottolinea la volontà di raggiungere un pubblico più ampio e di promuovere la valorizzazione della cultura popolare, un vero e proprio atto di resistenza.