Il precario cessate il fuoco a Gaza, un’ennesima tregua imposta dall’esterno, rivela ancora una volta la profonda disconnessione tra le decisioni politiche e la voce del popolo palestinese.
Le loro aspirazioni, i loro desideri di autodeterminazione e di una pace duratura, vengono sistematicamente ignorati, soffocati da interessi geopolitici che trascendono la loro realtà quotidiana.
L’assenza di figure come quella di Marwan Barghouti, simbolo di speranza e potenziale leader palestinese, evidenzia la volontà di silenziare le voci pacifiste, quelle che potrebbero offrire un percorso alternativo alla spirale di violenza.
Sepideh Farsi, regista iraniana in esilio e voce dissidente, offre una prospettiva cruciale attraverso il suo documentario “Put Your Soul On Your Hand And Walk”, presentato alla Festa del Cinema di Roma.
Il film, un mosaico di videochiamate realizzate tra aprile 2024 e aprile 2025, offre uno sguardo intimo e straziante sulla vita sotto le bombe, attraverso gli occhi di Fatma Hassouna, giovane fotoreporter palestinese.
La tragica morte di Fatma, uccisa da un drone in un attacco mirato insieme a sei membri della sua famiglia, è un macigno che pesa sulla narrazione, un simbolo della sistematica repressione e della pericolosità del lavoro giornalistico nella Striscia.
Il film, destinato a Cannes, si è visto strappato dalle mani della regista poco dopo l’annuncio, un’ulteriore conferma della fragilità e della precarietà di ogni tentativo di testimonianza.
Farsi sottolinea l’insufficienza del cessate il fuoco, esprimendo un ottimismo cauto, ma fondato sulla necessità di sperare.
La realtà sul campo, tuttavia, è tutt’altro che pacifica: il palazzo distrutto dove Fatma ha perso la vita è stato nuovamente colpito, una macabra dimostrazione di un’azione volta a cancellare le prove del genocidio.
L’emergenza umanitaria è gravemente aggravata dal blocco degli aiuti, ridotti a una frazione di ciò che sarebbe necessario per sostenere la popolazione civile.
La storia di Sepideh Farsi è profondamente intrecciata con quella della repressione e dell’esilio.
Cresciuta in Iran durante la rivoluzione, arrestata da adolescente, ha lasciato il suo paese per trovare rifugio a Parigi.
La sua esperienza personale alimenta la sua capacità di testimonianza, la sua volontà di dare voce a chi è stato silenziato.
La ricerca di Fatma, la giovane fotoreporter che è diventata il cuore del documentario, è stata un atto di speranza, un tentativo di catturare l’essenza della resilienza palestinese.
Attraverso le conversazioni via smartphone, Fatma si è rivelata una figura straordinaria, un esempio di coraggio e umanità.
Il suo sorriso, spesso contrastante con la desolazione che la circondava, era un atto di resistenza, un modo per affermare la dignità umana di fronte alla tragedia.
Sepideh Farsi ha vissuto in costante angoscia, temendo che ogni conversazione potesse essere l’ultima.
Oggi, mantiene un legame profondo con la madre di Fatma, offrendo sostegno e conforto.
Il ricordo della prima conversazione con Fatma rimane impresso nella mente di Farsi: la giovane fotoreporter, con fierezza e determinazione, ha affermato la sua identità palestinese, dichiarando che il suo popolo, nonostante le sofferenze, non sarebbe mai stato sconfitto, perché non aveva niente da perdere.
Parole potenti, semplici, che incarnano la speranza e la resilienza di un intero popolo.
La proiezione al Festival di Cinema e Donne di Firenze offrirà un’ulteriore occasione per condividere questa testimonianza e per mantenere viva la memoria di Fatma e di tutte le vittime della violenza.