“Giovani Madri” dei fratelli Dardenne si configura come un’opera di profonda e disarmante verità, un’immersione delicata ma implacabile in un microcosmo spesso invisibile: un centro di accoglienza per madri adolescenti.
Lungi da una retorica consolatoria, il film, acclamato con il premio per la sceneggiatura al Festival di Cannes e distribuito da Bim e Lucky Red, offre uno sguardo crudo e compassionevole sulle vite di Jessica, Perla, Julie, Naïma e Ariane (interpretate magistralmente da Babette Verbeek, Elsa Houben, Janaina Halloy Fokan, Lucie Laruelle e Samia Hilmi).
L’abilità dei Dardenne risiede nella capacità di costruire un’esperienza cinematografica che trascende la semplice narrazione.
Non si tratta di raccontare storie, ma di esporre l’esistenza.
Il centro di accoglienza diventa uno spazio liminale, un punto di rottura e potenziale rinascita per queste giovani donne, strappate ai loro contesti originali.
Assistiamo a un apprendimento intensivo, non solo dei gesti e delle competenze genitoriali, ma, soprattutto, alla difficile costruzione di una propria identità.
La decisione cruciale – tenere o affidare il figlio – si intreccia con la necessità di ricostruire un futuro, di recuperare un percorso interrotto, di affrontare la precarietà economica e sociale.
Il film non indulge in giudizi morali, ma rivela le complesse motivazioni che spingono queste ragazze a diventare madri.
Fughe dai propri abusi, desiderio di riscatto, ricerca di un senso di appartenenza e di valore personale, spesso proiettati sull’immagine della propria madre o nonna, che hanno subito destini simili.
La scena dell’incontro tra una donna adottata e la madre biologica, un momento di silenziosa intensità, è un esempio lampante di come il film riesca a toccare le corde più profonde dell’animo umano.
L’incontrare, un gesto semplice, si trasforma in una comunicazione trascendente, un abbraccio carico di emozioni represse e di domande inespresse.
La riflessione dei Dardenne non si arresta alla narrazione del singolo racconto, ma si proietta verso un’analisi più ampia del ruolo del cinema nella società contemporanea.
Con crescente preoccupazione, sottolineano la necessità di programmi di formazione cinematografica che contrastino l’eccessiva esposizione dei giovani ai media digitali, promuovendo invece l’esperienza condivisa della visione collettiva in sala.
Il loro appello è un monito contro un’attenzione politica superficiale, che spesso sottovaluta il valore dell’arte e della cultura, preferendo distrazioni effimere.
L’aneddoto raccontato da Luc Dardenne, quello del detenuto che ha scoperto il cinema in carcere, è particolarmente significativo: rivela la capacità del cinema di offrire consolazione, comprensione e, forse, una via di redenzione.
Il film, in definitiva, non è solo un’opera cinematografica, ma un atto di testimonianza, un invito a guardare oltre le apparenze e a riconoscere la dignità e la complessità di ogni esistenza umana.








