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Russell Crowe e Göring: Norimberga, un film sul male.

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Il cinema, da sempre specchio e talvolta artefice di miti, si trova spesso a navigare acque agitate quando affronta figure storiche complesse e moralmente ambigue.
La rappresentazione di figure naziste, in particolare, rischia di generare un terreno minato di equivoci e controversie, alimentato dalla pericolosa ambivalenza del fascino esercitato da personaggi come Hans Landa in “Bastardi senza gloria” o dal controverso rapporto sadomasochista narrato ne “Il portiere di notte”.

“Norimberga”, diretto da James Vanderbilt, si inserisce in questo contesto, ma con una peculiare intensità.

Il film, distribuito da Eagle Pictures e già acclamato come film di chiusura del 38° Torino Film Festival, pone al centro l’interpretazione di Hermann Göring, magistralmente impersonato da Russell Crowe.
La critica internazionale ha sottolineato la straordinaria capacità di Crowe di incarnare il carisma e la presenza ingombrante di Göring, un personaggio storico il cui fascino, paradossalmente, contrasta con la brutalità delle sue azioni.
Questa dissonanza, lungi dall’essere un difetto, amplifica la complessità psicologica del personaggio, rendendo palpabile la sua capacità di manipolazione e la sua inquietante normalità.

Come osservato da Variety, la performance di Crowe rischia di rendere eccessivamente piacevole la visione di un personaggio profondamente mostruoso.
RogerEbert.com, con maggiore lucidità, coglie il punto: conferire parole apparentemente razionali alla bocca del male è un’operazione intrinsecamente rischiosa.
Il film esplora proprio questa pericolosità, rivelando come dittatori e i loro accoliti riescano a conquistare potere attraverso la capacità di persuadere e di presentarsi come portatori di soluzioni, seppur perverse.

“Norimberga” ripercorre gli eventi del celebre processo di Norimberga del 1945, quando le potenze alleate si adoperarono per giudicare i vertici del regime nazista per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale, con un focus particolare sull’Olocausto.
Il film trae ispirazione dal romanzo “Il Nazista e lo Psichiatra” di Jack El-Hai e ruota attorno alla figura del giovane psichiatra dell’esercito americano Douglas Kelley (Rami Malek).
Kelley viene incaricato di valutare lo stato mentale degli imputati per determinare la loro idoneità a subire un regolare processo.

Questo compito lo catapulta in un vortice di confronto psicologico con figure emblematiche del male, tra cui spicca Göring. Inizialmente, l’approccio di Kelley è professionale e distaccato, ma si trasforma rapidamente in un’analisi complessa e inquietante.

La dinamica tra il razionale Kelley e il carismatico e manipolatore Göring diventa il fulcro del film, rivelando le profonde differenze ideologiche e morali che li separano.

L’incalzante accusa, guidata dal severo procuratore capo Robert H.

Jackson (Michael Shannon), cerca di portare alla luce la verità e di assicurare che i crimini del nazismo siano puniti con giustizia.

Le parole di Göring, pronunciate durante il processo, offrono uno sguardo agghiacciante nella mente di un criminale convinto della propria rettitudine.

Frasi come “Naturalmente, la gente non vuole la guerra.
Ma è compito dei leader convincerla che la guerra è inevitabile” o “Non avevo il tempo di occuparmi di ogni misura” rivelano una spietata logica e una totale assenza di empatia.

La sua negazione di responsabilità, culminante nella frase “Non mi considero un criminale.
Ho servito la Germania”, costituisce una disarmante sfida alla giustizia e alla moralità.

Il film non offre risposte semplici, ma stimola una riflessione profonda sulla natura del male, sulla responsabilità individuale e sulla fragilità della ragione umana di fronte all’ideologia.

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