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Martha Argerich: tra musica, memoria e inquietudini

## L’eco del tempo: Martha Argerich, tra gloria, memoria e il futuro della musicaA che servono le note? Un interrogativo tanto vasto quanto il cielo stellato, tanto profondo quanto l’animo umano.

Paragonabile, forse, alla domanda sul significato dell’amore.

La risposta, come l’amore stesso, si rivela più un’esperienza che una definizione precisa.
Martha Argerich, icona indiscussa del pianismo mondiale, lo sa bene.
La vediamo sorridere, un sorriso che racchiude decenni di palcoscenici, di applausi, di dedizione assoluta alla musica, ma anche di una consapevolezza malinconica.
“Ho conosciuto pochissimi che non amano la musica,” racconta, e subito aggiunge, con un tono che tradisce una profonda contraddittorietà: “Suono troppo, non sono contenta.

Non so perché lo faccio, ma lo faccio.

”La leggendaria pianista argentina, naturalizzata svizzera, ha recentemente illuminato il Festival Internazionale Elba Isola Musicale d’Europa con una performance memorabile, un viaggio emotivo attraverso le opere di Schumann e Shostakovic.

L’applauso liberatorio del pubblico è stato un riconoscimento alla sua arte, ma anche una sorta di eco delle sue inquietudini.
A 84 anni, Argerich continua a confrontarsi con la giovane generazione, a misurarsi con la complessità delle partiture, ma soprattutto a interrogarsi sul senso del suo percorso.

“Sono stanca,” confessa, un sussurro che rivela il peso del tempo.
Ma la stanchezza fisica non sembra essere la radice del suo malessere.

È una stanchezza dell’anima, un desiderio di distanziarsi dall’immagine pubblica, dalla figura dell’interprete acclamata.

“Vorrei avere tempo libero, non essere solo la pianista.

” Un desiderio di riscoprire la pienezza dell’esistenza al di là del palcoscenico, di esplorare nuovi orizzonti, di “scoprire altre cose,” un’aspirazione frustrata dalla consapevolezza della sua età.

La scelta dei compositori che interpreta è un atto di profonda devozione, una comunione spirituale con le loro opere.
Schumann, “il musicista più vicino alla mia anima,” rappresenta un rifugio, un conforto in un mondo in continuo mutamento.

L’esecuzione di Shostakovic, a celebrare il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, è un omaggio alla sua resilienza, alla sua lotta contro l’oppressione politica.

Argerich sottolinea l’importanza dell’impegno sociale dell’artista, ricordando figure come Toscanini e Casals, e contrastandole con quella di Furtwangler, il direttore d’orchestra macchiato dalle simpatie naziste.
In un’epoca segnata da conflitti e divisioni, la musica è spesso invocata come strumento di dialogo e riconciliazione.

Ma è davvero in grado di abbattere le barriere, di superare le incomprensioni? “È l’espressione di qualcosa che non conosciamo,” risponde Argerich, suggerendo che la musica, al di là delle intenzioni di chi la crea o la interpreta, possiede un potere intrinseco, capace di toccare le corde più profonde dell’inconscio umano.

Un potere talvolta ambiguo, persino pericoloso, in grado di suscitare emozioni contrastanti, dall’estasi alla rabbia.

Un pensiero fugace la illumina: la madre di un giovane ostaggio israeliano, anch’essa pianista, una speranza sussurrata nel cuore della tragedia.
Poi, un sorriso che si allarga quando parla di Claudio Abbado, un ricordo intimo di un’amicizia nata in tenera età, un legame che affonda le radici nel fertile terreno della masterclass di Friedrich Gulda.

Abbado, il giovane allievo prodigio, il compagno di palco in un concerto di Beethoven.

Ginevra, l’incontro con Maurizio Pollini, una rivalità costruttiva nata in un’epoca in cui uomini e donne erano ancora separati sul palcoscenico.

“Mi mancano terribilmente,” sospira Argerich, evocando un tempo di passione, di scoperta, di crescita.

Beethoven, il “dio della musica,” un’adorazione giovanile che si è evoluta in una forma di politeismo, un amore per Schumann, per Shostakovic, per Prokofiev, per Debussy.
L’eco del passato risuona nella sua attenzione per le giovani promesse della musica, per il talento emergente.

Martina Meola, la dodicenne italiana vincitrice del concorso Jeune Chopin, una scintilla di speranza per il futuro del pianismo.
Un futuro che, come l’arte stessa, è destinato a trascendere il tempo, a resistere alle avversità, a illuminare le tenebre.
Un futuro che, forse, troverà in lei un’ispirazione, una guida, un esempio di dedizione assoluta alla bellezza e alla verità.

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