La vicenda di Gian Paolo Bregante, ex comandante di navi condannato a quindici anni di reclusione per l’omicidio della moglie Cristina Marini a Sestri Levante, solleva interrogativi complessi sul confine tra malattia mentale, responsabilità individuale e il tragico irrompere della violenza domestica.
La sentenza, emessa dalla corte d’assise presieduta da Massimo Cusatti, ha rigettato la richiesta di attenuante per provocazione avanzata dalla difesa, rappresentata dagli avvocati Federico Ricci e Paolo Scovazzi, che aveva invocato una totale infermità mentale, e in subordine, una seminfermità, al fine di ottenere l’assoluzione.
La pubblica accusa, rappresentata dal pm Stefano Puppo, aveva inizialmente richiesto una pena di dodici anni, considerando la prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante del femminicidio e sollecitando il risarcimento del danno a favore del figlio della coppia.
L’ammissione spontanea di Bregante davanti alla corte, un resoconto agghiacciante di un tentativo di “salvarla in ogni modo” seguito da un crollo psichico culminato nell’atto fatale, ha aggiunto una dimensione di inquietudine al processo.
“Poi quel giorno non ho capito più niente e le ho sparato”, ha dichiarato l’uomo, evidenziando una perdita di controllo che, pur non esonerando dalla responsabilità, suggerisce una disconnessione dalla realtà.
La difesa aveva tentato di argomentare una condizione di infermità mentale, sostenendo che il rifiuto della moglie ad accettare cure per una presunta depressione avesse contribuito a un progressivo deterioramento delle condizioni psichiche dell’imputato, rendendola percepita come sempre più insofferente e aggressiva.
L’uomo aveva dichiarato di non aver mai nutrito intenzioni omicidarie, ammettendo però di aver, in un anno, pensato a un paio di occasioni di ricorrere alla violenza fisica, limitata a uno schiaffo.
La descrizione di un “esplosione” incontrollata, seguita alle sue dichiarazioni successive, delinea un quadro di profonda sofferenza e perdita di controllo.
La decisione della giudice per le indagini preliminari, che aveva già descritto l’omicidio come commesso in preda a un raptus, testimonia la complessità di valutare la capacità di intendere e di volere in contesti di grave disagio psichico.
Il caso Bregante, lungi da essere un semplice episodio di violenza, si configura come un campanello d’allarme sulla necessità di rafforzare i servizi di supporto psicologico per individui a rischio, sia per i potenziali aggressori che per le vittime di abusi, e di promuovere una cultura di rispetto e di prevenzione della violenza domestica, che troppo spesso si cela dietro facciate di normalità e silenzio.
La sentenza, pur riconoscendo la responsabilità penale dell’imputato, impone una riflessione più ampia sulla fragilità umana e sulla rete di protezione sociale necessaria per evitare che tragedie come questa si ripetano.