giovedì, 17 Luglio 2025
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Bregante, richiesta di condanna a 12 anni per l’omicidio della moglie

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Il processo a Gian Paolo Bregante, l’ex comandante di navi accusato dell’omicidio della moglie Cristina Marini a Sestri Levante, si è concluso con la richiesta di condanna avanzata dal pubblico ministero Stefano Puppo, fissata a dodici anni di reclusione.
La vicenda, densa di implicazioni psicologiche e giuridiche, ha visto contrapporsi l’accusa, che ha cercato di delineare un quadro di responsabilità penale, e la difesa, guidata dagli avvocati Federico Ricci e Paolo Scovazzi, che ha invocato una condizione di infermità mentale, totale o, in via subordinata, seminferma, come elemento determinante per l’esclusione o la diminuzione della responsabilità.

La valutazione del pm ha privilegiato l’applicazione delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante del femminicidio, un fattore cruciale nel calcolo della pena.

Si è inoltre presa in considerazione la potenziale compensazione del danno nei confronti del figlio della coppia, sottolineando la necessità di una riparazione non solo a livello giuridico, ma anche emotivo e patrimoniale.

Durante la sua deposizione davanti alla Corte d’Assise, presieduta da Massimo Cusatti, Bregante ha espresso un profondo rammarico, descrivendo un tentativo disperato di preservare la relazione, seguito da un crollo improvviso.

“Ho tentato di salvarla in ogni modo – ha dichiarato – poi quel giorno non ho capito più niente e le ho sparato”.

Queste parole, apparentemente semplici, aprono un abisso di interrogativi sulla dinamica degli eventi e sulle motivazioni che hanno condotto al tragico gesto.
La ricostruzione fornita dall’imputato, successivamente, ha portato alla luce un quadro complesso di sofferenza e deterioramento psicologico.
Bregante ha riferito di aver contattato le forze dell’ordine immediatamente dopo l’omicidio, attribuendo il gesto alla presunta resistenza della moglie nel sottoporsi a un trattamento per la depressione, un rifiuto che, secondo le sue parole, avrebbe innescato un peggioramento delle sue condizioni mentali, alimentando in lei comportamenti insofferenti e aggressivi.

Le dichiarazioni dell’imputato, fatte durante l’udienza dopo l’arresto, rivelano un percorso di graduale escalation della sofferenza: “Non avevo mai pensato di ucciderla, al massimo in quest’ultimo anno ho pensato un paio di volte di darle uno schiaffo”.

Questo ammette, in modo implicito, un controllo del suo temperamento, che poi si è perduto in un momento di perdita di contatto con la realtà.

La valutazione della giudice per le indagini preliminari (GIP) aveva già individuato in un “raptus” la causa scatenante dell’azione violenta, suggerendo una perdita momentanea del controllo delle proprie azioni.

La vicenda solleva interrogativi profondi sulla natura della depressione, sui suoi effetti sulla percezione della realtà e sul rischio di comportamenti violenti.
Il caso Bregante si inserisce in un contesto più ampio di femminicidi, fenomeni che evidenziano una profonda disuguaglianza di genere e una cultura della violenza che spesso si insinua nelle relazioni di coppia.

L’esito del processo, atteso per giovedì, determinerà non solo la pena inflitta a Gian Paolo Bregante, ma anche l’interpretazione giuridica e psicologica di un tragico evento che ha sconvolto la comunità.

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