La lentezza della giustizia, un’equità formale che però genera disillusione, si rivela implacabile, erodendo diritti e accanendosi su tutti, senza distinzione di ruolo o condizione sociale.
In questo caso, l’ombrello della prescrittura si chiude inaspettatamente su una figura chiave del sistema giudiziario, una magistrata genovese, vittima a sua volta di un atto intimidatorio che, a distanza di anni, si dissolve nell’impunità processuale.
La vicenda, affondando le sue radici nel 2019, si dipana attorno a un contenzioso legato a una tragica esposizione all’amianto, un dramma industriale che ha segnato profondamente la storia del lavoro in Italia, lasciando dietro di sé un’eredità di sofferenza e rivendicazioni risarcitorie.
Il figlio di un lavoratore deceduto a seguito di patologie asbesto-correlate aveva avviato un’azione legale per ottenere un adeguato risarcimento danni, un diritto sancito dalla legge ma spesso ostacolato da complesse dinamiche procedurali e finanziarie.
La giudice, in servizio presso la sezione lavoro del tribunale di Genova, aveva emesso una sentenza che respingeva il ricorso, una decisione che scatenò l’irruento sfogo di rabbia e frustrazione da parte dell’uomo, manifestato in maniera plateale davanti all’ingresso del palazzo di giustizia.
In un contesto pubblico, alla presenza di avvocati e clienti in attesa, l’uomo rivolse alla giudice insulti umilianti, accusandola di corruzione e di essere succube degli interessi dell’azienda imputata nel processo.
La minaccia velata, “Questa storia non finisce qui”, celava un’intimidazione volta a minare l’autorevolezza della magistrata e a condizionare le sue future decisioni.
La magistrata, tutelando la propria dignità e il corretto funzionamento della giustizia, sporte denuncia per diffamazione aggravata e minacce.
Il fascicolo, seguendo le regole procedurali che garantiscono l’indipendenza della magistratura, venne trasferito alla Procura di Torino, competente a indagare su eventuali illeciti commessi da membri del corpo giudiziario genovese.
Dopo due anni di indagini, nel 2023, l’istruttoria si concluse, ma la richiesta di un interrogatorio, avanzata dal difensore del 60enne per consentirgli di presentare le proprie controdeduzioni, rimase inspiegabilmente senza risposta.
Oggi, a distanza di sei anni dall’evento lesivo, la vicenda si chiude con un’amara constatazione: la prescrizione dei reati.
Un epilogo che evidenzia una profonda criticità del sistema giudiziario italiano, dove i tempi biblici dei processi compromettono l’effettività del diritto di difesa e lasciano impuniti coloro che, con gesti intimidatori, tentano di condizionare l’esercizio della funzione giudiziaria.
La vicenda solleva interrogativi cruciali sull’efficienza della giustizia, sulla necessità di accelerare i tempi processuali e sulla protezione dei magistrati, baluardi della legalità, spesso esposti a pressioni e minacce.
La vicenda, lungi dall’essere un caso isolato, rappresenta un campanello d’allarme, richiamando l’urgenza di riforme strutturali volte a garantire una giustizia più rapida, equa e capace di tutelare i diritti di tutti, senza soccombere alla forza del tempo.