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Morandi: l’accusa punta il dito sulla sorveglianza globale fallace.

La tragedia del Ponte Morandi, crollato il 14 agosto 2018 con la perdita di quarantaquattro vite, ha portato alla luce un sistema di gestione delle manutenzioni viziato, un paradigma che privilegiava la percezione di controllo piuttosto che l’effettivo monitoraggio strutturale.

Nel corso del processo che vede coinvolti settantasette imputati, il pubblico ministero Marco Airoldi ha delineato il ruolo cruciale di Gabriele Camomilla, ex direttore centrale delle Manutenzioni di Autostrade per l’Italia, evidenziando come le sue teorie sulla “sorveglianza globale” si traducessero, in pratica, in un approccio superficiale e parziale.

Camomilla, figura chiave nella gestione delle manutenzioni negli anni ’90, in particolare per quanto riguarda la pila 11, ha promosso una visione della sorveglianza incentrata su controlli visivi e sommari, minimizzando l’impiego di indagini tecniche approfondite.

Queste ultime, considerate onerose e dispendiose in termini di tempo, venivano riservate esclusivamente a casi percepiti come critici, bypassando i protocolli e le prescrizioni normative.

Questa filosofia, secondo l’accusa, era forse applicabile alla manutenzione di nuove infrastrutture, ma si rivelò fatale in un contesto come quello del Ponte Morandi, una struttura già affetta da patologie avanzate, caratterizzata da problemi di corrosione diffusa e difetti di iniezione, vere e proprie piaghe silenziose.

L’approccio superficiale di Camomilla, e dei suoi collaboratori, si dimostrava radicalmente inadeguato per affrontare tali problematiche.
Come aveva profeticamente avvertito lo stesso progettista, Riccardo Morandi, fin dal 1981, era imperativo scavare a fondo, analizzare la composizione interna della struttura, decifrare le cause latenti dei deterioramenti.

La superficialità dei controlli, la mancanza di indagini diagnostiche adeguate, hanno contribuito a mascherare i segnali di pericolo, a procrastinare interventi indispensabili.

L’attenzione diretta di Camomilla nella gestione del viadotto si estendeva anche alla pila 9, una delle sezioni cruciali che, tragicamente, ha ceduto.
La decisione di non intervenire, motivata dalla ritenuta non necessità di un’azione correttiva, si configura, alla luce degli eventi, come una scelta gravissima, frutto di una visione distorta della manutenzione, di una volontà di ridurre i costi a scapito della sicurezza.
Il processo, pertanto, non si limita a ricostruire la sequenza degli eventi che hanno portato al crollo, ma si propone di analizzare le responsabilità di un sistema che ha privilegiato l’apparenza del controllo sulla reale capacità di prevenire il disastro, un sistema in cui la teoria della sorveglianza globale si è tradotta in una negligenza fatale.

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