La serata al Carlo Felice, gremita in un’atmosfera di fervente attesa, ha visto trionfare una *Cavalleria rusticana* segnata da una circostanza avversa: lo sciopero Snater, che ha drasticamente ridotto la presenza corale, elemento imprescindibile nell’architettura drammatica e musicale dell’opera di Mascagni.
L’assenza dell’arpa, strumento che il compositore impiega con sapienza per veicolare atmosfere di profonda liricità, ha rappresentato un’ulteriore limitazione, un’ombra sulla resa complessiva.
L’allestimento, già proposto in passato a Genova, firmato dalla regia condivisa di Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi, con scene di Federica Parolini, si è rivelato un tentativo di recupero e rilettura di un’opera complessa, spesso ridotta a mera rappresentazione di passioni violente e immediate.
*Cavalleria rusticana* è un catalizzatore di emozioni primarie, ma la sua essenza risiede in una sottile architettura musicale che oscilla tra realismo crudo e raffinata eleganza.
Il Preludio, la struggente preghiera di Santuzza, il racconto appassionato, l’Intermezzo, l’addio commovente alla madre: questi momenti, densi di significato, richiedono un controllo dinamico e un’attenta bilanciatura tra orchestra e palcoscenico, un equilibrio delicato che il direttore Massiglia, pur con alcune intuizioni di notevole ispirazione nei generosi slanci lirici, ha faticato a mantenere costantemente.
La performance solistica ha offerto luci intense.
Veronica Simeoni, nel ruolo di Santuzza, ha incarnato la figura con una voce potente e una presenza scenica magnetica, restituendo la disperazione e la dignità del personaggio.
Luciano Ganci ha interpretato Turiddu con generosità vocale, sebbene l’interpretazione abbia talvolta mancato di una sottile sfumatura psicologica.
Gezim Myshketa ha conferito ad Alfio una voce robusta e possente.
Nino Chikovani, nel ruolo di Lola, ha offerto un’interpretazione adeguata, mentre Manuela Custer si è distinta per l’intensità e la profondità con cui ha impersonato Mamma Lucia.
L’impianto scenico, evocativo dell’antico teatro greco, arricchito da elementi di tradizione sicula e dall’utilizzo di maschere, ha offerto spunti interessanti, con particolare riferimento alla suggestiva messa in scena della preghiera.
Tuttavia, la decisione di alterare il climax finale, presentando Alfio che offre il coltello insanguinato a Mamma Lucia, si è rivelata una forzatura narrativa incongrua con lo spirito dell’opera.
In un contesto sociale come quello descritto, l’identificazione del colpevole sarebbe rimasta celata dietro un velo di silenzio e dolore collettivo.
Questo artificio, seppur apparentemente mirato a intensificare la drammaticità, si sottrae alla verosimiglianza e tradisce l’intenzione originaria di Mascagni, preferendo un effetto sensazionalistico a una fedeltà all’autenticità dei costumi e delle dinamiche sociali siciliane.
La decisione di esplicitare l’autore del delitto, in un contesto così fortemente radicato nella cultura dell’onore e del silenzio, rischia di sminuire la potenza emotiva della tragedia e la sua profonda riflessione sulla natura umana e le conseguenze della passione incontrollata.







