Il silenzio, o meglio, la latenza del mondo di fronte alla sofferenza palestinese, solleva interrogativi profondi sulla nostra stessa umanità.
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, lo ha espresso con chiarezza durante la sua recente visita a Genova, un crocevia di voci e di impegno civile.
Il suo incontro con gli studenti occupanti il rettorato, preludio al suo intervento pubblico, ha offerto un’occasione per riflettere non solo sulla situazione palestinese, ma anche sulla nostra responsabilità collettiva.
La manifestazione di un sentimento di solidarietà, incarnata nello striscione che inneggiava all'”Intifada” e alla “Resistenza”, ha generato un monito prezioso.
Albanese ha argomentato che l’uso di tali termini, pur legittimi nel contesto della lotta palestinese, in un contesto europeo può innescare reazioni controproducenti, alimentando l’ostilità e distogliendo l’attenzione dalle reali dinamiche del conflitto.
In un momento storico in cui un movimento di massa, eterogeneo per ideologie e provenienze, si sta mobilitando contro l’orrore del genocidio, è imperativo evitare azioni che possano marginalizzare questa crescente consapevolezza.
Questa mobilitazione non è il prodotto esclusivo di una tradizione politica di sinistra, ma un’espressione di profondo disagio morale condivisa da persone di ogni estrazione sociale che rifiutano l’inerzia di fronte alla distruzione di un intero popolo.
È fondamentale comprendere che la resistenza palestinese è una narrazione che trascende le nostre categorie politiche e ideologiche.
Dobbiamo proteggere questa narrazione, preservare l’integrità di questo movimento, evitando l’uso di simboli e slogan che, pur comprensibili nel loro contesto originario, rischiano di alienare coloro che, pur non condividendo le nostre posizioni, sono spinti dalla compassione e dal senso di giustizia.
La nostra battaglia, in questo contesto, deve concentrarsi sulla denuncia delle istituzioni europee che, per omissione o complicità, perpetuano l’ingiustizia.
L’amore, la compassione, la gentilezza, devono diventare i nostri strumenti per sostenere il popolo palestinese, in contrapposizione a un linguaggio che rischia di creare nuove divisioni.
Albanese ha evidenziato la fragilità del diritto internazionale, sottolineando che non è una forza autonoma, ma necessita dell’azione degli Stati.
Siamo testimoni di un’accelerazione storica, un momento critico che ci ricorda le tragedie del passato: il genocidio ruandese, le atrocità in Bosnia, la persecuzione del Myanmar.
Ciò che distingue la situazione palestinese è la sua capacità di scuotere le coscienze globali, di generare un senso di urgenza che non si era mai manifestato con la stessa intensità.
Il diritto internazionale, pur con i suoi limiti, rimane l’ultimo baluardo pacifico, l’ultimo strumento per chiedere conto ai responsabili e per imporre un cambiamento.
La sua erosione significherebbe abbandonare ogni speranza di una soluzione giusta e duratura.
Concludendo, Albanese ha esortato gli studenti a proseguire il loro impegno, a tradurre le competenze acquisite all’interno dell’università in azioni concrete al di fuori di essa, a diffondere la consapevolezza e a promuovere una cultura di pace e di solidarietà.
La loro voce, la loro energia, la loro capacità di innovazione, sono la chiave per costruire un futuro in cui la giustizia e la dignità umana siano finalmente garantite per tutti.