La ‘ndrangheta colpisce ancora: riapre l’indagine sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti e sulla crisi di fiducia nella magistratura calabrese.

La memoria dell’assassinio del giudice Antonino Scopelliti persiste nella memoria collettiva italiana come un incubo non ancora superato, il segno più oscuro della storia recente d’Italia che rimanda a un periodo in cui la lotta tra le mafie calabresi e lo stato sembrava aver raggiunto livelli insostenibili. Dopo quasi tre decenni da quel fatidico agosto 1991, la polizia si è ritrovata a riconsiderare la scena del crimine al fine di riaprire l’indagine sulla morte dell’uomo che era stato designato per guidare il procedimento penale contro i vertici della ‘ndrangheta nella seconda metà degli anni 90, una mossa destinata a portare le strutture criminali più potenti del sud d’Italia a compiere attacchi contro l’autorità giudiziaria. La decisione di tornare sul luogo dell’omicidio era forse la scelta più logica e necessaria, data l’inadeguatezza delle indagini condotte in quel periodo e le accuse rivolte ai vertici della DIGOS locale per essersi rifiutati di ascoltare i testimoni. Scopelliti non era solo un giudice di Cassazione: la sua morte fu anche l’ennesimo segno che il potere mafioso aveva assunto il controllo del sistema giudiziario calabrese, aprendo una profonda crisi di fiducia verso gli apparati dello stato. In quegli anni duri in cui la politica e le istituzioni sembravano incapaci di combattere efficacemente i crimini organizzati, il suo omicidio rappresentava un chiaro invito all’azione da parte delle mafie: attaccate l’autorità giudiziaria per imporre la vostra legge.

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