A dieci anni dalla tragedia di Amatrice, il sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, offre una riflessione lucida e pragmatica, oltre che un’eredità preziosa per le comunità ancora alle prese con la ricostruzione post-sismica.
Evita l’enfasi del miracolo, preferendo esaltare la costruzione di un approccio metodologico, un paradigma che, a suo dire, avrebbe potuto accelerare significativamente i processi di ripresa in altre aree devastate.
L’immagine de L’Aquila che emerge è quella di una città in continua evoluzione, un cantiere aperto sulla vita, un organismo in ricostruzione ma pulsante di attività.
Sebbene il recupero del patrimonio edilizio sia tuttora in corso, la città ha già restituito alla collettività servizi essenziali, scuole e uffici, segnando una ripresa concreta e tangibile.
La complessità del percorso ricostruttivo risiede nella prevalenza del centro storico vincolato, che rappresenta il sessanta per cento del patrimonio edilizio comunale.
Ogni intervento di restauro si configura come un’operazione unica, un intreccio di sfide tecniche, burocratiche e storiche.
Se la ricostruzione privata ha potuto progredire con maggiore agilità, la ripresa delle opere pubbliche si è scontrata con una fitta rete di regolamenti e ostacoli, inevitabili in un contesto di tutela del patrimonio culturale.
L’analisi comparativa con altre realtà colpite, come Amatrice, evidenzia la portata del lavoro svolto a L’Aquila.
Non si tratta solo di una questione di velocità o quantità di edifici ricostruiti, ma anche della capacità di ripristinare in tempi rapidi le funzioni centrali vitali per la comunità.
Biondi sottolinea come l’esperienza aquilana rappresenti un vero e proprio esperimento, un banco di prova senza precedenti nella ricostruzione di un capoluogo di Regione colpito da un evento sismico di tale portata.
L’Aquila si pone quindi come un laboratorio a cielo aperto, un modello potenzialmente replicabile per affrontare le sfide della ricostruzione.
L’eredità più importante non risiede tanto nei muri ricostruiti, quanto nell’elaborazione di un metodo, di un approccio sistemico che, se adottato su larga scala, potrebbe significativamente ridurre i tempi e migliorare la qualità della vita delle popolazioni colpite da calamità naturali, trasformando la resilienza in un vero e proprio motore di sviluppo.
La lezione aquilana, al di là della commozione e del ricordo, è un invito all’azione, un’opportunità per costruire un futuro più sicuro e sostenibile per tutti.