La testimonianza della criminologa Roberta Bruzzone, esperta consulto per la parte civile nel processo d’appello contro Alessia Pifferi, ha dipinto un quadro inquietante, un ritratto psicologico che illumina le dinamiche oscure alla base dell’omicidio della figlia Diana, una bambina di soli diciotto mesi.
L’analisi di Bruzzone si è focalizzata sulla profonda egocentrismo della Pifferi, descritta come un individuo la cui esistenza è interamente ancorata alla soddisfazione dei propri bisogni, relegando tutto il resto, inclusa la vita stessa della figlia, in una posizione marginale.
Non si tratta, secondo la criminologa, di una mancanza di consapevolezza.
La Pifferi, a differenza di profili psicopatici più severi, possiede la capacità di valutare le esigenze altrui, ma la sua priorità assoluta rimane sempre e comunque la propria gratificazione emotiva.
Questa centralità del sé crea una dissonanza cognitiva che la porta a considerare gli altri, compresa Diana, come strumenti per raggiungere il proprio benessere, piuttosto che come individui dotati di un’autonomia e di un diritto inalienabile alla cura.
Bruzzone ha sottolineato come la personalità della Pifferi sia strutturata attorno a schemi ben precisi, un sistema di valori distorto in cui la propria immagine e la percezione che gli altri hanno di lei assumono un’importanza smisurata.
Questo narcisismo, per quanto funzionale a mantenere un fragile senso di autostima, si manifesta in comportamenti manipolatori e in una totale assenza di empatia.
Il racconto degli eventi che portarono alla tragica scoperta del 20 luglio 2022 ha offerto un esempio tangibile di questa dinamica.
Dopo sei giorni di abbandono, il ritorno di Pifferi nell’abitazione, anziché essere segnato da preoccupazione o rimorso, è stato preceduto da un gesto apparentemente innocuo: l’apertura delle finestre.
Segue una sequenza di azioni mirate a creare una narrazione falsa, una messinscena volta a depistare le indagini e a ottenere una reazione di compassione da parte degli altri.
La menzogna sulla babysitter, l’allarme alla vicina, l’attivazione dei soccorsi: ogni passaggio è orchestrato con una perizia inquietante, frutto di una capacità manipolatoria di notevole livello.
La testimonianza ha suggerito che la Pifferi non agisce per pura malvagità, ma come risultato di una profonda disfunzione psicologica, una patologia che la porta a privare gli altri, e in particolare la figlia, della possibilità stessa di vivere.
Il caso Pifferi si presenta, quindi, non solo come una tragedia individuale, ma come la perdita di una giovane vita, ma come un campanello d’allarme sulla fragilità dei legami affettivi e sulla necessità di un intervento precoce per contrastare i segnali di disagio psicologico che possono condurre a gesti estremi.
La criminologa Bruzzone ha sollevato una questione cruciale: come riconoscere e come contrastare un egocentrismo patologico che può avere conseguenze devastanti per gli altri, e in particolare per i soggetti più vulnerabili, come i bambini.