La recente escalation di tensioni nelle piazze italiane, culminata negli scontri a Milano, ha scatenato un acceso dibattito sull’interpretazione della violenza.
Un gruppo eterogeneo di voci artistiche, da Zerocalcare a Massimo Carlotto, passando per Sandrone Dazieri, Modena City Ramblers, Bandabardò e Assalti Frontali, insieme a figure come Max Pisu, ha sollevato un comunicato congiunto che contesta la narrazione dominante e invita a una riflessione più profonda.
La reazione ufficiale si è concentrata su due vetrate distrutte alla stazione Centrale di Milano, etichettando l’evento come atto di vandalismo e violenza.
I firmatari del comunicato respingono questa semplificazione, sostenendo che la violenza vera non risiede nella contestazione di spazi pubblici, ma nella connivenza silenziosa di chi detiene il potere e gestisce l’ordine pubblico.
L’inabilità di gestire una manifestazione pacifica, l’uso sproporzionato della forza e l’arresto di manifestanti, soprattutto giovani, vengono definiti atti di violenza ben più gravi.
La nota non si limita a una critica delle azioni delle forze dell’ordine.
Denuncia l’omertà di chi, a vario titolo, contribuisce a perpetuare un sistema che ignora le sofferenze di un popolo.
La vera violenza, secondo gli artisti, è la passività di fronte al massacro di Gaza, la costruzione di una narrativa ad uso e consumo dell’opinione pubblica, che minimizza la gravità dell’occupazione coloniale e l’inazione governativa.
L’azione dei manifestanti che hanno tentato di forzare il blocco della stazione, pur caratterizzata da modalità muscolari, viene contestualizzata nell’ottica di una resistenza contro un potere che si arrocca in un ordine costituito.
La risposta delle forze dell’ordine, con l’uso massiccio di lacrimogeni, anche in direzione di civili, viene descritta come un’esacerbazione del conflitto, una provocazione che alimenta la rabbia e la frustrazione.
Il comunicato si pone come un appello alla liberazione dei detenuti e un’urgente richiesta di azione politica: il governo italiano è esortato a interrompere ogni forma di collaborazione economica con Israele, assumendosi la responsabilità di un intervento concreto per porre fine al genocidio in corso.
La prospettiva non è quella di condannare la rabbia collettiva, ma di comprenderla come espressione legittima di un disagio profondo, di una volontà di cambiamento che non può essere soffocata con la repressione e la retorica semplicistica.
Si auspica un mondo di pace, ma si rifiuta di cadere nella trappola di banalizzare la resistenza e di trasformare la complessità delle dinamiche sociali in un gioco di accuse reciproche.
Il silenzio, in questo contesto, è l’arma più pericolosa.