Il caso Elia Del Grande, figura tragica avvolta in una spirale di violenza e conseguenze legali complesse, continua a generare riflessioni profonde sul sistema di giustizia penale e sulla gestione dei soggetti pericolosi.
Il Tribunale di Sorveglianza di Piemonte ha recentemente disposto il mantenimento della collocazione di Del Grande, 50 anni, in una residenza protetta situata ad Alba, fino al 13 aprile del prossimo anno.
Questa decisione, lungi dall’essere una mera formalità, rappresenta un punto fermo in un percorso riabilitativo costellato da un evento traumatico: la fuga perpetrata lo scorso 30 ottobre dalla comunità di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena.
Il background di questa vicenda è ancorato a un crimine efferato commesso nel 1998, nel Varesotto, che vide Elia Del Grande responsabile dell’omicidio dei propri genitori e del fratello.
La condanna a trent’anni di reclusione, sebbene severa, si è rivelata insufficiente a scongiurare il rischio di comportamenti pericolosi, come dimostra il tentativo di evasione.
L’arresto successivo, avvenuto il 13 novembre a Cadrezzate, località carica di un significato macabro in quanto teatro del crimine originario, ha riacceso l’attenzione mediatica e ha sollevato interrogativi cruciali sulla validità dei protocolli di sorveglianza e sulla capacità di contenimento dei soggetti con disturbi psichici e tendenze violente.
La decisione del Tribunale di Sorveglianza, pur mantenendo la collocazione attuale, non preclude una revisione della situazione.
A metà aprile, con la scadenza della misura di sorveglianza speciale, si avvierà una nuova valutazione della pericolosità sociale di Del Grande.
Questo processo non è un mero adempimento burocratico, ma un’opportunità per analizzare l’andamento del percorso riabilitativo, l’efficacia degli interventi terapeutici e l’evoluzione del profilo psicologico del soggetto.
La questione sollevata dal caso Del Grande trascende la specifica vicenda giudiziaria, aprendo un dibattito più ampio sulla gestione dei disturbi mentali in ambito penale, sull’importanza di una valutazione multidisciplinare e sulla necessità di garantire la sicurezza sia del soggetto stesso che della collettività.
La complessità della situazione richiede un approccio integrato, che coinvolga psichiatri, psicologi, assistenti sociali e operatori penitenziari, al fine di definire un piano di intervento personalizzato e di monitorare costantemente l’evoluzione del profilo di pericolosità.
Il mantenimento della collocazione in una residenza protetta, seppur temporaneo, rappresenta una misura precauzionale, ma non esclude la possibilità di percorsi alternativi, che potrebbero includere la concessione di permessi premio o, in futuro, il reinserimento sociale, laddove giudicato opportuno e sicuro.
L’equilibrio tra esigenze di sicurezza e aspirazioni di riabilitazione costituisce, in definitiva, la sfida più ardua in questo caso particolarmente delicato.









