La disperazione, quando si scontra con l’impossibilità materiale, può generare scelte estreme.
Un caso emblematico, recentemente emerso dal Varesotto e riportato da La Prealpina, illustra questo dramma con una cruda e sconvolgente chiarezza.
Si tratta di un cittadino nigeriano, trentaseienne e titolare di un permesso di soggiorno temporaneo, che, accecato dal desiderio di ricongiungersi con la famiglia rimasta in Africa, ha optato per una strategia disperata: auto-arrestarsi per accelerare un rimpatrio forzato.
L’uomo, dopo un lungo periodo di lavoro in una fabbrica locale, percepisce un sussidio di disoccupazione (Naspi) che destina in gran parte all’invio di rimesse nel suo paese d’origine.
Questa assistenza economica, pur rappresentando un supporto vitale per i suoi cari, non è sufficiente per coprire il costo di un biglietto aereo di ritorno.
La distanza geografica, amplificata dalle difficoltà economiche, si tramuta in una barriera apparentemente insormontabile, alimentando un profondo senso di frustrazione e isolamento.
La decisione di simulare un reato, un atto di autodistruzione paradossale, rivela la profondità della sua angoscia.
Venerdì scorso, presso la stazione ferroviaria di Varese, l’uomo ha consapevolmente attirato l’attenzione delle forze dell’ordine consumando un modico quantitativo di sostanze stupefacenti.
La successiva perquisizione ha portato al rinvenimento di una modesta quantità di hashish, sufficiente per determinare un arresto.
Durante l’udienza di convalida dell’arresto, la rivelazione della sua intenzione – una confessione velata di sollievo – ha lasciato trasparire il suo piano: ottenere l’espulsione dal territorio italiano, trasformando una condanna penale in un percorso verso il ritorno a casa.
Un precedente tentativo, consumatosi a marzo dello stesso anno, aveva visto l’uomo simulare un disturbo comportamentale su un treno, sempre con l’obiettivo di innescare un procedimento di rimpatrio.
Questo caso, ben al di là di una semplice notizia di cronaca, solleva interrogativi complessi sulla gestione dei flussi migratori, sulle condizioni di vita dei migranti in stato di precarietà e sull’efficacia delle politiche di assistenza sociale.
La disperazione di un uomo, spinto al limite dalla lontananza dalla famiglia, diventa uno specchio impietoso delle fragilità del sistema e della difficoltà, spesso, di offrire percorsi di reinserimento che vadano al di là delle soluzioni repressive.
La vicenda non può essere interpretata come una ricerca di privilegi, ma piuttosto come una tragica manifestazione di un bisogno umano primario: il desiderio di casa.