Un episodio allarmante scuote il sistema penitenziario lombardo: un detenuto serbo, ventinove anni, ha violato la sicurezza del carcere di Bollate, alimentando un dibattito urgente sulla gestione delle pene alternative e sulla sicurezza delle strutture detentive.
La notizia, diffusa dal vicesegretario del Sappe lombardo, Matteo Savino, si inserisce in un quadro più ampio di eventi critici che interrogano profondamente l’efficacia delle politiche di sicurezza attualmente in atto.
L’evasione, unita alle vicende precedenti che hanno coinvolto Emanuele De Maria, tragicamente defunto dopo una spirale di violenza innescata durante un permesso di lavoro esterno, e Breda Paolicelli, la donna di origine Rom sparita nel nulla, solleva interrogativi pressanti sulla capacità del sistema di garantire sia la sicurezza pubblica che la riabilitazione dei detenuti.
La concomitanza di questi eventi, tutti caratterizzati da una rottura drammatica del controllo e della sicurezza, non è casuale, ma piuttosto il sintomo di un malessere strutturale.
Il detenuto fuggito, nato a Garbagnate Milanese nel 1996 e condannato a una pena che si estende fino ad aprile 2028 per reati di furto in abitazione, è ora oggetto di un’intensa attività di ricerca.
Immediatamente allertate tutte le risorse disponibili, sia interne che esterne al carcere, le indagini sono in corso con la collaborazione delle forze dell’ordine.
Donato Capece, segretario generale del sindacato, sottolinea con forza che la priorità assoluta è la ricattura dell’evaso, ma non si limita a questo.
Capece invita a una radicale revisione del concetto di pena alternativa, denunciando come questa sia spesso percepita come un’applicazione meccanica e automatica di una disposizione legislativa, piuttosto che come un incentivo positivo per il detenuto.
Si tratta di superare l’idea che la pena alternativa sia un diritto acquisito, un semplice trasferimento da un contesto all’altro, e riconcettualizzarla come un percorso di responsabilizzazione e reinserimento sociale, strettamente legato a garanzie di sicurezza e monitoraggio costante.
L’evasione, secondo Capece, è una diretta conseguenza di un progressivo smantellamento delle politiche di sicurezza penitenziaria, iniziate negli anni passati e mai sufficientemente corrette.
Questo processo di erosione della sicurezza non si è limitato alla mera riduzione del personale o alla diminuzione dei controlli, ma ha implicato una sottovalutazione del rischio, una tendenza a privilegiare l’immagine di un sistema penitenziario “umanitario” a scapito della reale protezione della collettività e della stessa sicurezza dei detenuti.
È necessario, dunque, un ritorno a un modello di gestione penitenziaria che sappia bilanciare la riabilitazione con la necessità di garantire un ambiente sicuro per tutti, personale, detenuti e cittadini.
L’episodio di Bollate, pertanto, non può essere considerato un evento isolato, ma un campanello d’allarme che richiede un intervento urgente e strutturale, finalizzato a riaffermare la centralità della sicurezza penitenziaria come fondamento di un sistema giudiziario equo ed efficace.