L’assenza di elementi probatori che permettano di collocare temporalmente l’intenzione omicida di Alessandro Impagnatiello prima del tragico evento che ha visto Giulia Tramontano perdere la vita solleva interrogativi cruciali sull’evoluzione del suo piano criminale.
La somministrazione di topicida nei mesi precedenti l’aggressione, ricostruita attraverso analisi chimiche e testimonianze, non emerge come preludio diretto a un proposito di uccisione, bensì come tentativo deliberato di interrompere una gravidanza, percepita dall’agente come un ostacolo insormontabile alle sue aspirazioni personali e professionali.
La Corte d’Assise d’Appello, ribadendo la condanna all’ergastolo, ha ritenuto che l’azione di avvelenamento fosse motivata primariamente dall’intenzione di indurre un aborto terapeutico, piuttosto che da un disegno volto alla morte della donna.
Questa distinzione, apparentemente sottile, assume un peso significativo nell’ambito della qualificazione giuridica del reato.
La premeditazione, elemento fondamentale per l’applicazione della pena più severa, implica una deliberata pianificazione di un omicidio, con la formazione di un proposito volto alla soppressione della vita della vittima.
La focalizzazione sull’aborto come obiettivo primario non esclude, ovviamente, la gravità delle azioni compiute da Impagnatiello.
L’uso di una sostanza pericolosa, la manipolazione emotiva della donna, la negazione del suo diritto all’autodeterminazione, rappresentano condotte riprovevoli e meritevoli di una severa punizione.
Tuttavia, la mancanza di un chiaro disegno omicida, come emerge dall’analisi delle prove, incide sulla specifica qualificazione giuridica del crimine.
La vicenda solleva, inoltre, questioni etiche e sociali di notevole complessità.
Il diritto all’aborto, la responsabilità genitoriale, la pressione sociale e le aspettative individuali, si intrecciano in un quadro drammatico che invita a una riflessione più ampia sui valori che guidano le scelte individuali e le conseguenze che ne derivano.
La giustizia, in questo contesto, si confronta con la necessità di bilanciare la tutela della vita e la considerazione delle circostanze attenuanti, nel tentativo di accertare la verità e di applicare la legge in modo equo e imparziale.
L’assenza di prove definitive sulla datazione del proposito omicida non cancella la colpa, ma ne modula la portata giuridica, lasciando al contempo spazio a interrogativi inquietanti sulla psiche dell’agente e sulle dinamiche relazionali che hanno portato a questa tragica conclusione.








