A distanza di quasi due decenni dalla tragica vicenda di Meredith Kercher, emerge una problematica complessa e spesso trascurata: il fardello dell’etichettatura sociale che affligge chi, pur assolto in sede giudiziaria, si ritrova a vivere con la percezione di una colpa non cancellabile.
Raffaele Sollecito, figura centrale nel doloroso processo per l’omicidio di Perugia, lancia un allarme che va al di là della riabilitazione legale, toccando le corde di un’ingiustizia più profonda, quella dell’opinione pubblica.
L’assoluzione definitiva, giunta nel 2015 dopo un tormento di quattro anni di detenzione preventiva e otto di un processo costellato di ricostruzioni fragili e contestabili, non ha comportato una reale liberazione.
L’ombra del dubbio persiste, alimentata da una narrazione distorta e da una tendenza a semplificare la complessità di un caso che ha coinvolto una comunità intera.
“Molti continuano a pensare che l’abbia fatta franca,” confessa Sollecito, descrivendo un clima di sospetto che si manifesta in sguardi, commenti e, in alcuni casi, persino in una riluttanza istituzionale a riconoscere il diritto al risarcimento per i danni subiti.
La sua esperienza si intreccia dolorosamente con quella di altri innocenti, come Alberto Stasi, vittima di una campagna mediatica distruttiva e di un errore giudiziario che lo ha condannato ingiustamente per l’omicidio di Garlasco.
Entrambe le vicende illuminano un punto critico del nostro sistema: la difficoltà di separare il giudizio legale da quello sociale.
La sentenza, per quanto definitiva, appare insufficiente a dissipare la nebbia del pregiudizio.
Sollecito ha trovato rifugio e una nuova prospettiva professionale in Puglia, dedicandosi all’architettura del cloud, un campo che gli permette di conciliare lavoro e libertà di movimento.
Tuttavia, la sensazione di essere perennemente sotto osservazione, il peso di una presunta colpevolezza che non si placa, rappresentano un ostacolo costante alla piena ricostruzione della sua vita.
L’appello di Sollecito non si limita a una richiesta di risarcimento economico.
È un grido per una profonda riflessione sulla necessità di riformare non solo il sistema giudiziario, ma anche la nostra capacità di elaborare la memoria collettiva.
È un invito a promuovere una cultura della responsabilità che includa la consapevolezza dei danni causati dalle accuse infondate e dalla perpetuazione di stereotipi negativi.
La legge può dichiarare l’innocenza, ma solo un cambiamento culturale può liberare completamente un individuo dal marchio indelebile della colpevolezza percepita.
La giustizia, in definitiva, non si limita al processo, ma abbraccia la capacità di comprendere, di perdonare e di offrire una vera opportunità di reinserimento nella società.







