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sabato 15 Novembre 2025

Monia Bortolotti: Assoluzione e Rems, un verdetto complesso

La vicenda di Monia Bortolotti, la donna di Pedrengo accusata della tragica scomparsa dei suoi figli Alice e Mattia, si è conclusa con un verdetto complesso e profondamente carico di implicazioni etiche, legali e psicologiche.
La Corte d’Assise di Bergamo, dopo un lungo e travagliato percorso processuale, ha emesso una sentenza che segna una cesura netta tra l’accusa di omicidio doloso e la considerazione di una compromessa capacità di intendere e di volere.
Riguardo alla prima vittima, la piccola Alice, la Corte ha dichiarato l’assoluzione perché il fatto non sussiste.
Questa decisione, che rappresenta una pietra miliare nel processo, implica l’impossibilità di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, un nesso causale tra le azioni di Monia Bortolotti e il decesso della figlia.

L’assenza di prove concrete a sostegno della premeditazione o della volontà di causare la morte solleva interrogativi cruciali sulla complessità dell’indagine e sulla difficoltà di ricostruire eventi avvolti nell’ombra di una presunta patologia mentale.

La situazione si è delineata in maniera differente per la morte del secondogenito, Mattia.
In questo caso, la Corte ha optato per l’assoluzione basata sulla totale incapacità di intendere e di volere al momento del fatto.
Questa sentenza, pur non attenuante in termini di responsabilità penale, riconosce l’esistenza di una condizione psicopatologica così grave da escludere la capacità di agire consapevolmente.

Si tratta di una valutazione complessa, che richiede un’attenta disamina delle perizie psichiatriche e una ponderazione dei fattori che hanno potuto compromettere la stabilità mentale dell’imputata.

La richiesta di condanna all’ergastolo con isolamento diurno, avanzata dalla Procura, si è scontrata con questa valutazione critica delle condizioni psichiche di Monia Bortolotti.
L’accusa aveva sostenuto la premeditazione e la lucidità nell’azione, evidenziando l’intolleranza verso i pianti dei bambini e il fardello dell’assistenza, e contestando presunte manipolazioni di familiari e specialisti per alterare la percezione della sua condizione.
La difesa, al contrario, aveva invocato l’esistenza di un “vizio di mente” che avrebbe dovuto portare all’esclusione della responsabilità penale.

L’esito del processo pone ora Monia Bortolotti in una struttura di media sicurezza, una Rems, per un periodo di dieci anni.

Questo provvedimento non costituisce una pena, ma una misura di sicurezza volta a garantire la sua cura e la tutela della comunità.

La condizione della donna sarà soggetta a verifiche semestrali, al fine di valutare l’evoluzione della sua condizione mentale e la possibile reintegrazione sociale.
Il caso Bortolotti solleva interrogativi profondi sul rapporto tra genitorialità, malattia mentale, responsabilità penale e sistema giudiziario.

La sentenza, pur rappresentando una conclusione formale, lascia aperte numerose questioni etiche e sociali, invitando a una riflessione più ampia sulla prevenzione delle patologie mentali, sull’importanza del supporto alle famiglie in difficoltà e sulla necessità di garantire un percorso di cura e riabilitazione per coloro che, come Monia Bortolotti, si trovano ai margini della società, intrappolati in una spirale di sofferenza e disperazione.

La vicenda, tragica e complessa, rappresenta un monito per l’intera comunità.

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