Un’immagine potente, quasi sacrale, si è dispiegata lungo le rive della Darsena dei Navigli a Milano: centinaia di corpi, immobili, distesi su lenzuola bianche o direttamente a contatto con il terreno, rievocando un’eco lontana, terrificante, dei bombardamenti che martirizzano la Striscia di Gaza. Un’azione performativa, un “die-in” meticolosamente orchestrato con la collaborazione di un tecnico palestinese, mirava a trasfigurare l’ipotesi della morte in un sentimento di paura palpabile, un monito lanciato al mondo.L’iniziativa, promossa da un ampio fronte di associazioni – Arci, Anpi, Cgil, Rifondazione Comunista – e sostenuta da una folta schiera di cittadini, si è presentata come una denuncia vibrante contro la spirale di violenza che avvolge il Mediterraneo e rischia di inglobare l’intero pianeta. Lo slogan “Con i nostri corpi fermiamo la guerra globale. Il governo italiano non partecipi alla guerra” non era un mero grido, ma la declinazione di una profonda convinzione: la necessità di opporsi, fisicamente e moralmente, alla militarizzazione crescente del continente europeo.L’inquietudine che permeava l’aria era palpabile, alimentata dalla consapevolezza di un conflitto globale imminente. La presenza di basi militari statunitensi sul territorio italiano, l’esposizione geografica e la fragilità delle infrastrutture rendono il Paese vulnerabile a ripercussioni dirette. L’estate, stagione tradizionalmente associata al riposo e alla rigenerazione, si presenta invece come un momento di stanchezza profonda, un accumulo di ansie e di paure.Gli attivisti, con la forza di un coro unanime, hanno espresso un rifiuto categorico di guerra, di riarmo, di genocidio e di ogni forma di autoritarismo. La protesta non era solo una reazione alla tragedia in corso, ma un appello a un cambiamento radicale, un invito a costruire un futuro basato sulla pace, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà internazionale. La necessità di un’azione congiunta è stata sottolineata con urgenza. Si invitano reti, organizzazioni e gruppi a intensificare la convergenza, a tessere una rete sempre più ampia e resiliente, capace di resistere alle pressioni del militarismo e di promuovere alternative pacifiche e sostenibili. Il silenzio dei corpi distesi, in contrasto con il brusio della città, era una chiamata all’azione, un monito a non rassegnarsi alla barbarie e a lottare per un mondo più giusto e pacifico. La speranza, fragile ma tenace, risiedeva nella capacità di stringersi, di allargare la rete, di trasformare il dolore in forza e la paura in azione.
Navigli di Milano: un die-in contro la guerra e il genocidio.
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