L’attesa per una verità processuale, lungamente sospesa, culmina in un’intervista a Quarto Grado, dove l’esperto genetico Andrea Sempio offre una disamina tecnica che solleva interrogativi significativi sul caso.
La sua testimonianza, pur nella sua apparente concisione, si presta a una lettura più profonda, rivelando sottili critiche e timori.
Sempio, con un linguaggio pragmatico, esprime un’iniziale perplessità nei confronti delle evidenze del DNA recuperate dalla scena del crimine.
La sua osservazione – che una traccia post-aggressione dovrebbe manifestarsi con una precisione superiore a quella riscontrata – suggerisce una possibile contaminazione o un errore involontario, aprendo un varco nell’apparente solidità delle prove scientifiche a carico.
Quest’incertezza, lungi dall’essere un mero dettaglio tecnico, mina la catena di ragionamento che lega l’imputato al crimine.
La sua assenza durante l’ultimo atto dell’incidente probatorio a Pavia, contrapposta alla presenza di Alberto Stasi, è stata motivata dalla mancanza di necessità formale e dalla potenziale creazione di confusione.
Questa scelta strategica, lungi dall’essere una semplice questione procedurale, sottolinea la consapevolezza dell’esperto riguardo all’influenza che la sua presenza, e le sue competenze, avrebbero potuto esercitare sull’opinione pubblica e, potenzialmente, sulla valutazione delle prove da parte del collegio giudicante.
L’analisi di Sempio si estende alla dinamica delle indagini, con un commento sulla ricerca di elementi a discapito dell’imputato da parte della difesa.
Riconosce la legittimità di tale operazione, auspicando una ricerca onesta e trasparente.
Tuttavia, sotto la superficie di questa apparente acquiescenza, emerge una preoccupazione latente: la possibilità che, in assenza di prove solide, si ricorra alla creazione di un “mostro”, un’immagine caricaturale dell’imputato destinata a rafforzare la percezione di colpevolezza.
La percezione di un’ostilità crescente, incarnata in una “tifoseria” popolare schierata contro di lui, rivela un clima di polarizzazione che trascende i confini del processo giudiziario.
Questa divisione, alimentata dai media e dai social network, rischia di compromettere l’oggettività della ricerca della verità, trasformando il processo in un’arena di passioni e pregiudizi.
Infine, il contatto con Marco Poggi, descritto come uno scambio significativo tra amici, offre un barlume di umanità in un contesto altrimenti dominato dalla tensione e dall’incertezza.
Questa parentela, sebbene possa apparire un dettaglio marginale, suggerisce una rete di relazioni complesse e stratificate, che si estendono al di là del mero ambito processuale, e che potrebbero essere cruciali per comprendere le dinamiche del caso.
L’amicizia, in questo contesto, rappresenta un punto di aggancio emotivo, una testimonianza di legami che resistono alla pressione del giudizio pubblico.




