Il peso di ventisette anni di pena, un’eredità dolorosa che si abbatte su Daniele Rezza, condannato per l’efferato omicidio di Manuel Mastrapasqua. Un verdetto che, pur rappresentando una parziale risposta al vuoto incolmabile lasciato dal giovane, non cancella il trauma di una madre, Angela Brescia, la cui dichiarazione, intrisa di speranza e consapevolezza della complessità del sistema giudiziario, lascia intuire una battaglia ancora in corso. “So che non sarà così, so che non saranno ventisette anni,” sussurra, un monito che rivela la profonda comprensione delle possibili ripercussioni procedurali e delle possibili revisioni future. La decisione della Corte di inasprimento della pena, accogliendo la richiesta della Procura, viene percepita come un atto di giustizia compiuta, ma non risolutivo. Il dolore, la rabbia, il senso di ingiustizia restano ferite aperte. Michael Mastrapasqua, fratello della vittima, eleva una riflessione più ampia, un appello alla responsabilità individuale che trascende il contesto geografico e sociale. L’attenuante proposta dalla Procura, legata alle difficoltà di Rezza in un ambiente considerato problematico, viene subito contrastata da una personale esperienza di assenza paterna. “Anche io sono cresciuto senza un padre, ma non ho mai intrapreso questa strada.” Questa affermazione non intende sminuire le difficoltà vissute dall’aggressore, ma piuttosto negare la possibilità di giustificare la violenza con l’appartenenza a un determinato luogo. La generalizzazione, il rischio di stigmatizzare un’intera comunità come Rozzano, viene fermamente respinta. Non tutti i giovani cresciuti in un determinato contesto sociale sono destinati a commettere atti violenti; l’individuo rimane responsabile delle proprie azioni. L’aggravante della recidività, l’aver fatto ricorso a un’arma bianca in passato, sottolinea una pericolosità preesistente, un campanello d’allarme che non è stato ascoltato, una misura preventiva che avrebbe potuto evitare la tragedia. Il rimpianto di non aver agito tempestivamente, di non aver interrotto un percorso autodistruttivo, si mescola alla richiesta di giustizia, un desiderio di sicurezza per la comunità, una speranza che simili eventi non si ripetano. La vicenda Mastrapasqua si rivela, quindi, non solo una storia di dolore personale, ma anche una riflessione più ampia sulla responsabilità sociale, sulla prevenzione della criminalità e sulla necessità di affrontare le cause profonde della violenza.
Ventisette anni e un dolore ancora vivo: la sentenza Mastrapasqua
Pubblicato il
