Il mio intervento, un atto di denuncia volto a stimolare una riflessione, non meritava una risposta repressiva, ma un’apertura al confronto. Avevo auspicato una reazione più matura e ponderata, in grado di affrontare la questione sollevata con la consapevolezza che essa richiedeva. Lo ho affermato in un’intervista a Radio Onda D’Urto, la giovane attivista, il cui volto celato dietro una maschera, ha interrotto il concerto inaugurale alla Scala, gridando “Palestina libera” e subendo poi il licenziamento.Il mio gesto, lungi dall’essere impulsivo, era frutto di una profonda angoscia. Non potevo più rimanere in silenzio mentre un’istituzione di tale prestigio, un tempio dell’arte e della cultura, si asteneva dal prendere posizione di fronte a una tragedia umanitaria di proporzioni genocidali. Non cercavo un riconoscimento personale, ma volevo stimolare una presa di coscienza, un’azione concreta. La mia protesta, durata venti secondi, un breve istante prima dell’inizio dello spettacolo, era un atto di disobbedienza civile, un grido di allarme volto a scuotere le coscienze. Anche le forze dell’ordine, nella loro valutazione, hanno riconosciuto la natura pacifica del mio intervento, realizzato durante l’assemblea dell’Asian Development Bank alla presenza della Presidente del Consiglio.Rivolgendomi alla direzione del teatro alla Scala, voglio sottolineare un’amara contraddizione: mi sarei sentita protetta dall’anonimato istituzionale, avrei dovuto pagare un biglietto per poter esprimere apertamente il mio dissenso. Ho scelto di intervenire pubblicamente, in modo trasparente e consapevole, perché il mio ruolo all’interno dell’istituzione mi ha permesso di osservare da vicino la sua omessa presa di posizione. La Scala, infatti, ha promosso iniziative a sostegno dell’Ucraina, ma ha deliberatamente evitato qualsiasi azione istituzionale in favore della Palestina.Mi sono interrogata sulla ragione dell’eco che il mio gesto ha avuto. Credo che la risposta sia chiara: se la Scala avesse mostrato sensibilità nei confronti della causa palestinese, il mio licenziamento sarebbe stato attribuito ad altre ragioni, non al contenuto della mia azione. Ho lasciato la mia postazione, infrangendo le regole interne, e per questo sono stata punita. Ma, al di là delle sanzioni, esiste una scala morale che guida le mie azioni, una scala in cui al vertice risiede il valore inestimabile della vita umana. Un valore che non può essere ignorato, né silenziato, né sacrificato sull’altare della convenienza o dell’opportunità politica. La mia speranza è che questo episodio possa innescare un dibattito più ampio e profondo, un dibattito che coinvolga l’intera comunità artistica e culturale, e che porti a una maggiore sensibilità e impegno nei confronti delle ingiustizie che affliggono il nostro mondo.
Licenziata dalla Scala per Palestina: un grido di allarme e una riflessione.
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