La questione dei cani randagi a Delhi, e più ampiamente in India, si è trasformata in una drammatica emergenza socio-sanitaria, culminata nell’intervento della Corte Suprema.
La decisione, che impone all’amministrazione di Delhi otto settimane per gestire la popolazione canina, riflette una crescente preoccupazione pubblica alimentata da un aumento allarmante di aggressioni e decessi correlati.
Lungi dall’essere un problema locale, la situazione è diventata un indicatore della più ampia crisi di gestione del benessere animale e della salute pubblica che affligge il paese.
La sentenza della Corte Suprema, pur nell’ottica di tutelare la sicurezza dei cittadini, si inserisce in un contesto di crescente tensione tra diritti umani, tutela della fauna selvatica e responsabilità governativa.
La giustificazione ufficiale risiede nei numeri: i media indiani, con un’enfasi spesso sensazionalistica, riportano un’impennata nei casi di morsi, con alcune stime che raggiungono i duemila al giorno, un dato che amplifica la percezione di un pericolo imminente.
Questi numeri, pur da verificare con attenzione, rappresentano il culmine di anni di abbandono e di una politica di gestione del randagismo inefficace.
L’ordinanza della Corte, che impone l’istituzione di canili temporanei e la registrazione quotidiana degli animali catturati, è una misura estrema che ignora, o quantomeno minimizza, le complesse dinamiche sociali ed ecologiche in gioco.
La popolazione di cani randagi, stimata in circa centomila unità, è il risultato di decenni di abbandono, di riproduzione incontrollata e di una lacuna nella sterilizzazione e nella sensibilizzazione.
Il censimento del 2012, ormai obsoleto, aveva quantificato in sessantamila il numero di randagi; l’aumento esponenziale testimonia il fallimento delle politiche precedenti.
È doveroso riconoscere il ruolo attivo e spesso altruistico di numerosi cittadini che, in un vuoto di azione governativa, si prendono cura dei cani, fornendo loro cibo, acqua e riparo.
Questo impegno spontaneo, sebbene lodevole, non può essere considerato una soluzione sostenibile al problema.
La questione non è semplicemente quella della gestione degli animali, ma anche di un profondo difetto di responsabilità collettiva.
L’India si colloca tristemente al terzo posto mondiale per decessi correlati a morsi di cane, con un numero di casi registrati nel 2024 che supera i tremilioni e un bilancio di cinquantaquattro vittime.
Questi dati, comunicati al parlamento dal ministero della Sanità, sottolineano l’urgenza di un approccio olistico e sostenibile.
Un approccio che non si limiti alla cattura e alla detenzione, ma che comprenda programmi di sterilizzazione su larga scala, educazione civica sulla prevenzione dei morsi, e un rafforzamento delle leggi sulla protezione degli animali.
L’emergenza di Delhi rappresenta un campanello d’allarme per l’intero paese, un monito sulla necessità di affrontare le radici del problema: l’abbandono, la mancanza di risorse dedicate al benessere animale e l’assenza di una cultura di responsabilità condivisa.
La decisione della Corte Suprema, pur necessaria in questo momento di crisi, non può essere considerata una soluzione definitiva, ma un punto di partenza per un cambiamento strutturale e culturale.