L’ombra del “Russiagate” continua a percuotere la scena politica americana, alimentando un ciclo di accuse e contro-inchieste che riflette una profonda polarizzazione.
Donald Trump, convinto di essere stato vittima di un’operazione orchestrata dall’amministrazione Obama per screditare la sua corsa alla presidenza nel 2016, ha innescato una nuova fase di indagine, questa volta affidata all’Attorney General Pam Bondi e a un gran giurì di Washington.
L’obiettivo è valutare la veridicità di presunte prove che coinvolgerebbero figure apicali dell’amministrazione precedente, tra cui gli ex direttori dell’FBI, James Comey, e della CIA, John Brennan, oltre all’allora Presidente Obama, sebbene la sua immunità presidenziale presenti ostacoli significativi.
La nuova indagine si radica in recenti dichiarazioni della congressista Tulsi Gabbard, che ha sollevato dubbi sull’integrità di una valutazione di intelligence redatta durante l’amministrazione Obama.
Secondo Gabbard, tale valutazione, apparentemente volta a delineare potenziali minacce alla sicurezza nazionale, fu deliberatamente manipolata per screditare la campagna di Trump.
Al centro di questa presunta manipolazione figurerebbe il controverso dossier commissionato a Christopher Steele, ex agente dell’MI6, e finanziato dalla campagna di Hillary Clinton attraverso la società di investigazioni Fusion GPS.
Questo documento, ricco di accuse infondate riguardanti presunti collegamenti tra la campagna Trump e il governo russo, ha rappresentato uno dei fulcri del precedente scandalo “Russiagate”.
È cruciale ricordare che l’inchiesta condotta dal procuratore speciale Robert Mueller, pur confermando l’interferenza russa nelle elezioni del 2016 con l’obiettivo di favorire Trump, non ha trovato prove concrete di una cospirazione tra la campagna Trump e il Cremlino.
L’indagine di Mueller ha però sollevato interrogativi significativi sulle modalità con cui l’FBI ha gestito le informazioni contenute nel dossier Steele, e sui possibili abusi di potere.
Le precedenti iniziative volte a smentire le accuse di “Russiagate” non hanno prodotto risultati definitivi.
Nel primo mandato di Trump, John Durham fu nominato procuratore speciale e, dopo anni di indagini, pubblicò un rapporto che criticava le azioni dell’FBI, pur non riscontrando un piano criminale volto a danneggiare Trump.
Nonostante questo, l’amministrazione Trump sostiene di essere in possesso di nuove prove, tra cui email compromettenti legate al presunto complotto ordito da Hillary Clinton.
Tuttavia, queste stesse email sono oggetto di sospetti, con dirigenti dell’intelligence che suggeriscono una possibile origine russa, in un tentativo di disinformazione volta a screditare ulteriormente l’amministrazione Trump.
L’avvio di questa nuova inchiesta, dunque, si inserisce in un contesto di profonda sfiducia istituzionale e rivalità politiche, con implicazioni potenzialmente significative per la percezione della legittimità del processo democratico americano.
L’esito di questa indagine, lungi dall’essere scontato, rischia di esacerbare ulteriormente le divisioni nel paese, dipendendo in larga misura dalla capacità del gran giurì di discernere la verità in un mare di accuse e contro-accuse.