La questione di Taiwan, lungi dall’essere un mero contenzioso bilaterale, rappresenta un nodo cruciale nel delicato equilibrio dell’ordine internazionale, un’eredità complessa del secondo dopoguerra.
La dichiarazione del presidente Xi Jinping, espressa durante il dialogo con l’allora presidente Trump, cristallizza la posizione irremovibile di Pechino: il ritorno di Taiwan alla sovranità cinese costituisce un principio fondamentale, non negoziabile.
Questa affermazione, presentata con un sottile richiamo storico – l’alleanza sino-americana nella lotta contro il fascismo e il militarismo – suggerisce una narrazione più ampia.
Entrambe le nazioni, impegnate in passato contro un nemico comune, dovrebbero, a detta di Xi, cooperare per preservare i valori e gli asset acquisiti con la vittoria nella Seconda guerra mondiale.
Ma dietro questa apparente invocazione della memoria condivisa si cela un’interpretazione profondamente divergente del significato di quell’eredità storica e della sua rilevanza nel presente.
La “riunificazione” invocata da Pechino non è semplicemente una questione di confini geografici o rivendicazioni territoriali.
Essa si intreccia con la percezione cinese di un’ingiustizia storica, derivante dalla frammentazione del paese dopo la guerra civile e dall’intervento statunitense che ha sostenuto il governo di Taipei.
Per la Repubblica Popolare Cinese, il riconoscimento del principio “una sola Cina” e l’accettazione del ritorno di Taiwan sono condizioni imprescindibili per una piena integrazione nella comunità internazionale e per la restaurazione della sua posizione di potenza globale.
Tuttavia, la prospettiva di Taiwan è radicalmente diversa.
L’isola, che si governa autonomamente dal 1949, ha sviluppato una propria identità democratica, un sistema politico e un’economia fiorente che la distinguono nettamente dalla Cina continentale.
Per molti taiwanesi, l’identità taiwanese è distinta da quella cinese, e l’idea di una “riunificazione” forzata solleva serie preoccupazioni riguardo alla perdita di autonomia, libertà e democrazia.
L’atteggiamento degli Stati Uniti, come “guardiano” del Pacifico e garante della democrazia, aggiunge ulteriore complessità alla situazione.
La politica di “ambiguità strategica” adottata da Washington, che non chiarisce se interverrebbe militarmente per difendere Taiwan in caso di attacco cinese, è volta a scoraggiare Pechino dall’uso della forza e a mantenere stabilità nella regione.
Tuttavia, questa ambiguità alimenta incertezze e potenzialmente può esacerbare le tensioni.
Il nodo taiwanese, quindi, non è risolvibile attraverso una semplice riconciliazione storica o un compromesso politico superficiale.
Richiede una comprensione profonda delle prospettive divergenti, una gestione diplomatica attenta e un impegno a preservare la pace e la stabilità nella regione, tutelando al contempo i valori democratici e l’autodeterminazione dei popoli coinvolti.
La posta in gioco è la credibilità dell’ordine internazionale e la prevenzione di un conflitto potenzialmente catastrofico.








