La recente mobilitazione dei medici di base campani, manifestata davanti alla sede della Regione Campania, solleva un campanello d’allarme cruciale sul futuro della sanità territoriale e sul ruolo del medico di famiglia.
Al centro della protesta vi è la nuova normativa regionale volta a riempire le 172 Case di Comunità previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un’iniziativa che, paradossalmente, rischia di erodere il pilastro stesso della medicina generale.
L’attuale scenario vede i medici di base già gravati da un carico di lavoro considerevole: giornate che si protraggono per dieci ore, suddivise tra visite domiciliari, gestione della burocrazia capillare e la redazione di certificati e ricette, spesso al di fuori dell’orario di ambulatorio.
La proposta di limitare ulteriormente il tempo dedicato allo studio individuale e alla gestione del proprio ambulatorio per dedicarsi alle Case di Comunità, senza un’adeguata compensazione o garanzie, genera un profondo senso di frustrazione e un reale timore per la continuità dell’assistenza ai propri pazienti.
La critica più stringente riguarda l’assenza di un piano di assunzione di personale medico dedicato alle Case di Comunità.
Il cosiddetto “Accordo integrativo regionale”, come denunciato dal medico Gianni Verde, sembra configurarsi come un tentativo di sovraccaricare i medici di base, trasformandoli in risorse flessibili, spostabili a seconda delle necessità, senza tutela né riconoscimento del loro impegno.
Questa visione, percepita come una forzatura imposta anche con il consenso dei sindacati, si contrappone all’autonomia e alla dedizione che i medici di base hanno sempre dimostrato nei confronti della propria comunità.
Il timore diffuso è che questa riorganizzazione possa compromettere il rapporto di fiducia consolidato nel tempo con i pazienti, coloro che già oggi confidano nel medico di base come primo punto di contatto con il sistema sanitario.
La prospettiva di essere trasferiti in Case di Comunità distanti, con la conseguente perdita dei pazienti seguiti per anni, viene percepita come una violazione dei diritti dei lavoratori e, soprattutto, dei pazienti stessi.
Si aggiunge un ulteriore livello di preoccupazione: l’ipotesi che questa strategia, con la sua apparente enfasi sulla costruzione di infrastrutture (le Case di Comunità), possa in realtà pavimentare la strada per una progressiva privatizzazione della medicina territoriale.
Secondo Fabio Balzano, l’obiettivo potrebbe essere quello di rendere meno attrattiva la medicina generale, aprendo la porta a cooperative private che gestiranno le Case di Comunità, impiegando medici a partita IVA, una pratica già diffusa nel settore ospedaliero.
Questo scenario solleva interrogativi sulla qualità dell’assistenza e sulla sostenibilità del sistema sanitario nel lungo periodo.
La protesta dei medici di base campani non è solo una reazione a una normativa specifica, ma rappresenta una più ampia riflessione sul futuro della medicina territoriale, sull’importanza del rapporto medico-paziente e sulla necessità di un sistema sanitario che valorizzi il ruolo del medico di famiglia come punto di riferimento per la salute della comunità.
Il rischio è quello di erodere un patrimonio inestimabile, sostituendolo con un modello più orientato al profitto che rischia di compromettere la salute dei cittadini.