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Prosciolto Di Martino: svolta nel caso Covito, fragili le prove.

La decisione del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) del Tribunale di Napoli, Nicoletta Campanaro, ha segnato una svolta in un caso giudiziario che ha profondamente segnato la storia criminale dell’area vesuviana: Luigi Di Martino, figura storica nel panorama mafioso locale, soprannominato “o profeta” e a lungo considerato reggente del clan Cesarano, è stato prosciolto dall’accusa di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Tommaso Covito, avvenuto a Santa Maria La Carità il 12 novembre 2000.
La vicenda, incastonata in un contesto di violenta contrapposizione tra il clan Cesarano, dominante a Castellammare di Stabia e nei comuni limitrofi, e il gruppo rivale dei Moscarella, rivela la complessità delle dinamiche interne alla criminalità organizzata e le difficoltà intrinseche nella ricostruzione della verità giudiziaria in tali scenari.
L’omicidio di Covito, consumatosi a distanza di oltre venticinque anni, si configura come uno dei tanti episodi cruenti di una guerra per il controllo del territorio e delle attività illecite.

Le accuse mosse a Di Martino, sostenute dalle dichiarazioni dei familiari della vittima, dalle testimonianze di cinque collaboratori di giustizia – figure chiave nella ricostruzione di eventi spesso oscurati da un muro di omertà – e, in origine, da alcune intercettazioni telefoniche, si sono rivelate insufficienti a superare il vaglio della presunzione d’innocenza.

Il Pubblico Ministero, dopo un’approfondita istruttoria, aveva inizialmente richiesto la condanna all’ergastolo per Di Martino, che si è avvalso dell’assistenza legale di Marcello Severino e Dario Vannetiello, avvocati di spicco nel panorama giudiziario italiano.

L’esecuzione dell’omicidio, descritta come un agguato premeditato, coinvolse due individui, presumibilmente agendo su moto, che insidiarono Covito mentre questi era alla guida di un’autovettura con altri due occupanti.
La cadenza di colpi di arma da fuoco, secondo le ricostruzioni investigative, fu estesa, dimostrando una determinazione a sopprimere la vittima.
La dinamica, pur delineata, non ha permesso di attribuire in maniera univoca la responsabilità di aver materialmente sparato a Di Martino, sollevando dubbi che hanno condotto alla richiesta di non luogo a procedere da parte del GIP.
La sentenza evidenzia la fragilità delle prove, la difficoltà di distinguere tra informazioni veritiere e false confessioni nell’ambito della collaborazione con la giustizia, e le sfide che i magistrati si trovano ad affrontare nella ricerca della verità in contesti segnati da un codice d’onore che impone il silenzio.
Il caso pone interrogativi profondi sulla percezione della giustizia da parte delle famiglie delle vittime e sulla necessità di garantire processi equi e trasparenti, anche quando si tratta di figure legate alla criminalità organizzata.

Il proscioglimento, pur non escludendo responsabilità di altri soggetti, rappresenta una pietra miliare nella complessa narrazione di una guerra di mafia che ha lasciato un segno indelebile nella storia della regione Campania.

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