La notizia che giunge da Santa Maria Capua Vetere, dove un uomo di trentuno anni ha posto fine alla propria esistenza all’interno del carcere, non può essere accolta come un evento isolato, bensì come un tragico sintomo di una profonda crisi sistemica che affligge il nostro sistema penitenziario. Il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha sollevato un campanello d’allarme che risuona in un contesto già gravissimo, segnato da un sovraffollamento asfissiante e da condizioni di vita spesso inumane.L’ennesimo decesso, che si aggiunge a un bilancio nazionale già sconfortante – trentasei suicidi e settantotto decessi in circostanze da accertare – evidenzia una realtà dolorosa: il carcere, lungi dall’essere un luogo di riabilitazione e reinserimento sociale, si sta trasformando per molti in una camera di lenta e inesorabile disperazione. La Campania, con i suoi cinque suicidi dall’inizio dell’anno, riflette una situazione nazionale allarmante, con istituti che faticano a garantire il minimo rispetto della dignità umana.Morire di pena è una tragica realtà, ma morire di carcere, morire *nel* carcere, implica una responsabilità collettiva che trascende le mura dell’istituto stesso. Il garante Ciambriello non indulge in accuse superficiali, ma richiama con forza la responsabilità di tutti: la società civile, chiamata a confrontarsi con le conseguenze del crimine e del fallimento del sistema; la politica, tenuta a definire strategie concrete di riforma; l’amministrazione penitenziaria, chiamata a garantire condizioni di vita dignitose e a offrire un supporto psicologico adeguato; il terzo settore e il volontariato, in prima linea nell’assistenza ai detenuti.La rassegnazione, l’abitudine a registrare queste tragedie, è il terreno fertile per la perpetuazione di un ciclo di sofferenza. La politica e l’amministrazione penitenziaria devono superare la reazione immediata di condanna per abbracciare un’autentica riflessione critica, approfondendo le cause profonde che spingono individui, spesso fragili e vulnerabili, a compiere gesti estremi. È necessario un cambio di paradigma, che metta al centro il rispetto dei diritti umani, la promozione della salute mentale e l’offerta di opportunità concrete di riscatto. Oltre a un incremento delle risorse umane e materiali, è imperativo investire in programmi di prevenzione del suicidio, formazione del personale, percorsi di mediazione culturale e di reinserimento sociale. La collaborazione tra istituzioni, associazioni e comunità locali è fondamentale per creare una rete di supporto che possa offrire ai detenuti una speranza per il futuro, un futuro che vada al di là delle sbarre e li riconduca al tessuto sociale da cui, per qualche ragione, si sono allontanati. La morte di questo uomo di trentuno anni non può rimanere una statistica, ma deve essere un monito costante per agire, con urgenza e determinazione, per evitare che altre tragedie simili si ripetano.
Suicidio in carcere: un grido di dolore per il sistema penitenziario.
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