La tragica scomparsa di un giovane detenuto nordafricano di 29 anni, avvenuta nella casa circondariale di Ariano Irpino, solleva con urgenza una riflessione profonda sullo stato del sistema penitenziario italiano e le sue implicazioni etiche e sociali.
L’evento, comunicato dal segretario generale della Uilpa Penitenziaia, Gennarino De Fazio, non è un mero episodio isolato, bensì il tragico epilogo di una spirale di disagio, marginalizzazione e vulnerabilità, esacerbata da condizioni strutturali critiche.
Il giovane, gravato da preesistenti problematiche psichiatriche, ha scelto la via estrema, un gesto che testimonia l’insufficienza delle misure di supporto e assistenza psicologica garantite all’interno del sistema.
La rapidità dei soccorsi si è rivelata inutile, evidenziando l’impotenza di fronte a una sofferenza profonda e apparentemente insormontabile.
La denuncia del sovraffollamento, pari al 32%, che vede 286 detenuti ospitati in una struttura progettata per soli 216, non è una novità.
Si tratta di una condizione endemica che affligge molte strutture penitenziarie in Italia, con conseguenze devastanti per la dignità umana e la sicurezza dei detenuti e del personale.
Il sovraffollamento acuisce le tensioni, favorisce la diffusione di patologie, rende più difficoltosa l’attuazione di programmi di riabilitazione e crea un ambiente claustrofobico e demoralizzante.
A questa problematica si aggiunge la carenza di personale, con un organico della Polizia Penitenziaria al di sotto del 40%.
La mancanza di agenti non solo compromette la sicurezza, ma riduce anche la possibilità di instaurare relazioni umane significative con i detenuti, relazioni che potrebbero fare la differenza nella loro percorso di reinserimento sociale.
La vicenda di Ariano Irpino richiede un cambio di paradigma.
Non è sufficiente limitarsi a misure palliative o a interventi emergenziali.
È necessario un investimento strutturale e sistemico nel sistema penitenziario italiano, che tenga conto non solo dell’aspetto repressivo, ma anche di quello riabilitativo e di reinserimento sociale.
Questo implica:* Un’urgente revisione della politica penale: Individuare i reati che possono essere gestiti al di fuori del circuito carcerario, privilegiando alternative come la detenzione domiciliare, i lavori di pubblica utilità e i programmi di giustizia riparativa.
* Potenziamento dell’assistenza sanitaria mentale: Garantire l’accesso a servizi di psichiatria forense adeguati, con personale specializzato e risorse sufficienti per la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle patologie mentali.
* Formazione del personale penitenziario: Fornire agli agenti di polizia penitenziaria competenze specifiche in materia di gestione dei detenuti con problemi di salute mentale e tecniche di de-escalation.* Promozione di attività formative e lavorative: Offrire ai detenuti opportunità di istruzione, formazione professionale e lavoro, per favorire l’acquisizione di competenze utili per il futuro e il recupero di una dimensione di autonomia e responsabilità.
* Coinvolgimento della società civile: Creare ponti tra il carcere e il territorio, attraverso il coinvolgimento di associazioni di volontariato, cooperative sociali e aziende che possano offrire opportunità di lavoro e sostegno ai detenuti.
La morte del giovane detenuto non può rimanere impunita.
Deve scuotere le coscienze e spingere le istituzioni, la politica e la società civile a intraprendere un percorso di cambiamento profondo e duraturo, affinché il sistema penitenziario italiano possa finalmente adempiere alla sua funzione di tutela della dignità umana e di promozione della giustizia.